Lo stato dell’arte del settore musicale è esattamente questo: una cornice di merda con dentro un quadro sfumato, incomprensibile

È arrivato il momento di ripartire dalle basi, dall'alfabeto, come fossimo alle scuole elementari. Quindi studiare, certo, ascoltare, ma anche mettere in circolo musica che sia arte


INTERAZIONI: 539

Forse sarebbe il caso, prima o poi, di fare un ragionamento serio sullo stato dell’arte, oggi.

Cancellate tutto.

Riparto. Parlare di “stato dell’arte” e mettere nella stessa frase “oggi” ci pone in presenza di un ossimoro. Una negazione che parte dall’intento e con l’intento di raccontare un’ affermazione.

Il fatto è che per “lo stato dell’arte”, dico l’ovvio, si intende qualcosa di diverso da quello che, inizialmente, si voleva specificare. Non si parla d’arte, non necessariamente. Si parla di contingenza. Della situazione in cui si versa, affrontando un determinato argomento. E se l’argomento in questione è la musica, ahinoi, è facile che la parola arte sia fraintesa, perché evocata dalla parola stessa, musica, ma assolutamente assente. Già questo potrebbe chiudere il discorso, quindi. Lo stato dell’arte è che siamo in assenza di arte. Chiudete le trasmissioni, addio. Archiviamo il tutto come disastro apocalittico.

Ma non è facile catastrofismo quello che voglio praticare.

Tutt’altro.

Voglio provare a infilarmi, unto e privo di asperità, dentro un pertugio piuttosto stretto, non esattamente una bella immagine, lo ammetto, nel tentativo di raccontare per filo e per segno cosa sta succedendo in quella che è la filiera economica che gira intorno alla musica, tenendo sempre bene a mente che la musica è sì un comparto economico, parte del più ampio comparto dell’intrattenimento, ma è al tempo stesso cultura, e la cultura, converrete con me, non deve necessariamente fare i conti col mercato. Anzi, non ce li dovrebbe proprio fare.

E parto proprio da qui, da questo ultimo esile concetto.

La cultura e il mercato.

Scrivo di musica, nei modi e coi toni che, se siete qui a leggermi, probabilmente conoscete. Se non li conoscete, amen, ve ne farete presto un’idea piuttosto chiara.

Scrivo di musica, occupandomi in prevalenza, se non esclusivamente, di musica italiana e nello specifico in prevalenza di mainstream, alternando a una critica anche piuttosto ficcante di quel che propone il convento a alternative che ritengo valide, spesso indipendenti, in alcuni casi addirittura autarchiche, con una buona percentuale legate al femminile. Spesso, per questo mio costante contrapporre, certamente ideologico, stilistico più che stiloso, giganti che cadono a elementi monocellulari che guardano alle stelle, sono oggetti di attacchi violenti da parte delle fanbase dei giganti di cui scrivo. A volte addirittura di shit storm, organizzate e efficaci.

Lasciando però da parte queste ultime, che ovviamente esulano dal classico scontro social e scivolano addirittura nel penale, è chiaro che la critica, mi si perdoni per l’uso improprio del termine, che più spesso mi viene mossa, anche da addetti ai lavori è: se Tizio/a piace a così tanta gente vuol dire che ha ragione lui/lei.

Come se essere baciati dal successo comportasse anche una qualità artistica, di questo, quando scrivo di musica, mi occupo.

Come se essere dozzinali, uso un termine volutamente caustico, non comportasse anche avere una diffusione ampia, si parla di dozzine, mica di unità.

Come se avere il beneplacito di una marea montante di persone significasse che si è pregiati più che la marea montante di persone abbiano un comprovato gusto di merda.

Ovviamente il successo e il valore non vanno necessariamente di pari passo. Non voglio dire che non ci vanno quasi mai, perché verrei immediatamente bollato di radicalchicchismo, passerei per un professorone, un intellettualone, ma tant’è.

Del successo, parlando di musica, poco mi interesso. Posso prenderlo in considerazione quando mi occupo della macchina che intorno alla musica si muove, ma è altro discorso. Quando parlo di musica, di arte, il successo non è certo elemento rilevante. Semmai è incidentale, perché a volte l’arte tocca tanti cuori, ma solo a volte.

Per il resto sono discorsi che corrono su binari che, come tutti i binari, procedono paralleli, a volte, binari strani, vanno in direzioni opposte, o più semplicemente si perdono e bye bye.

Dire che se uno ha successo ha ragione, parlando d’arte, e quindi per altro dando vita a un paradosso, perché arte e ragione, converrete, nulla hanno a che spartire, è surreale, oltre che idiota.

Provate a sostenere che il Big Mac sia di qualità eccelsa perché molto amato dal popolo, poi ne parliamo.

Il fatto è che ci siamo disabituati al bello. O meglio, ci siamo proprio disabituati all’arte, che non necessariamente deve mettere in scena il bello, ma che al bello deve tendere, fosse anche per sublimazione, contrapposizione, catarsi, contrapposizione, idealizzazione.

Ci siamo analfabetizzati, o forse ci siamo lasciati analfabetizzare, a volerla vedere in maniera un po’ meno complottistica. Abbiamo lasciato che il cattivo gusto diventasse semplicemente il gusto, un po’ come è successo col cibo. Ci siamo diseducati al buon gusto, abituandoci al cattivo gusto. Siamo passati, cioè, da una cucina tradizionale, che teneva conto delle contingenze, delle stagioni, delle peculiarità geografiche delle regioni, a una uniforme, eterna, vagamente plastificata. Meno buona, se per buono si intende con gusti forti, precisi, peculiari. Ma anche più facilmente riconoscibile per chiunque, in qualsiasi parte del mondo. Anche più economica, quasi gratis, e in questo il parallelo con la musica è quantomai aderente.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se, a differenza di quanto è successo nell’ambito dell’alimentazione, ancora non mi sembra sia partita una controrivoluzione, una risposta decisa atta a rimettere la qualità al centro della scena.

Non c’è stato, per dire, quello che per il cibo è stato il movimento di Slow Food, anche se un movimento che si chiama Slow Music, in effetti, esiste. Non c’è neanche stato un discorso a monte, magari fatto per i motivi sbagliati, intendiamoci, come quello che di colpo ha posto il cibo al centro della televisione, con decine, centinaia di programmi che parlano di ingredienti, di ricette, di impiattamenti, raccontano il cibo, dando per altro vita a una sorta di situazione surreale per cui l’unica cosa che del cibo non si può gustare è proprio il sapore, come se si parlasse di musica senza ascoltarla. Ecco, mentre in tv prosperano i Cannavacciulo, i Ramsey, i Cracco, ma prosperavano anche i Chef Rubio o i Bourdain, nella musica qualcuno, chi in realtà è a capo di quella filiera, ci diceva, di volta in volta, che la sola musica possibile era quella che passava dai network radiofonici, dai talent o, adesso, dallo streaming. Tutti contesti, per altro, che teoricamente erano nati proprio per allargare la proposta artistica, aprire le porte a chi, in teoria, non aveva altra maniera di farsi largo, ma che ha finito per omogeneizzare la musica stessa.

Per dire, i network radiofonici, versione aggiornata delle radio libere, sono passati dall’essere appunto liberi, quindi dal proporre esattamente la musica che volevano, all’essere cassa di risonanza dei proprio direttori artistici, spesso in combutta coi discografici. Così si è passati dall’avere una marea di profili differenti, peculiari, a un manipolo di radio che passa “solo grandi successi”, alla faccia del pluralismo. Idem per i talent, passati dall’essere una sorta di trampolino di lancio per talenti, di qui il nome, che non avrebbero altrimenti avuto modo di proporsi, vuoi perché periferici, provinciali, vuoi perché impossibilitati dalla troppa concorrenza a arrivare alle orecchie giuste, all’essere una sorta di catena di montaggio, in cui gli autori testano andando a tentoni percorsi ai loro occhi vincenti, andando poi a sviluppare quelli che portano a un risultato nell’immediato, il pubblico già lì bello pronto. Lo streaming, poi, considerato da molti la vera ancora di salvezza di una discografia in coma profondo, indicato quindi come la più grande possibilità immaginabile, tutta la musica a disposizione di chiunque, si è rivelato un boomerang clamoroso, con pochissime persone a decidere le sorti di tutti, in Italia giusto una, il tutto con l’avvallo della FIMI, che per un paio di anni ha regalato certificazioni come fossero noccioline salvo poi capire che si stava andando verso un cul de sac.

Un mondo, quello descritto a volo d’angelo, in cui è sempre un gruppetto ristretto di persone a prendere decisioni che poi hanno effetti sulla collettività. Si tratti dei patron delle radio, dei patron dei talent o di chi gestisce le fantomatiche playlist di Spotify. Poche persone, spesso connesse tra loro, alla faccia dell’arte.

Non è poi mica un caso che, nei rari casi in cui ci si scrolla di dosso la narcolessia, quando cioè un lampo di vita attraversa lo sguardo dei dormienti, ci sia un reale scollamento tra i quello che la gente prova a indicare come gradito e quel che nelle classifiche sembrerebbe la sola musica possibile, analfabetizzati, quindi, ma non persi del tutto, prova ne è stato, recentemente, il televoto a Sanremo, andato a chi, a dirla tutta, nello streaming non è certo un campione, andato a chi ha fatto gavetta, ha sudato sugli strumenti, ha fatto i famosi concerti davanti a quattro gatti, prima di andare davanti a platee più ampie.

Del resto, torniamo alla questione della gratuità, se abituiamo la gente a avere servizi musicali gratuiti, e ormai il dado è tratto in tal senso, perché dovremmo mai pensare che poi la gente è disposta a spendere per avere qualcosa che sempre nello stesso ambito ha prezzi anche elevati?

Se ho la musica gratis nel telefonino difficilmente andrò a buttare trenta, quaranta euro per un concerto. Piuttosto li spendo per un firma copie, tanto per avere poi un selfie.

La fregatura è però un’altra, che spesso e volentieri chi si occupa di questa filiera, della musica, vive e lavora a Milano, città che ancora oggi ha una sua realtà live piuttosto movimentata. E un po’ come succede per X Factor, tento un parallelo, che nel capoluogo lombardo è molto seguito, ma che in qualche modo occupa militarmente la città, tra cartelloni, eventi collaterali, banner sui mezzi pubblici, ma nel resto di Italia tira su numeri da televendita su ReteCapri, anche per quel che riguarda i live può far apparire i sold out del Forum come una costante nazionale, quando quasi sempre i concerti degli stessi artisti nel resto dello stivale sono bagnati più dal sangue dei promoter che dagli oceani di folla. Non riusciamo a vedere oltre il nostro naso e confondiamo la nostra bolla come la realtà, prova ne è il costante provare a tirare Alessandro Cattelan al centro di una ipotetica scena nazionale, quando anche i test fatti durante il Festival sul suo gradimento come ipotetico conduttore del prossimo Sanremo hanno portato a risposte a dir poco negative.

Ora, a questo punto dovrei tirar fuori dal cappello un coniglio, o quantomeno ipotizzare che, da qualche parte, lì in fondo, un coniglio potrebbe pur esserci. Guardo bene, strizzo gli occhi, li abituo al buio, divento praticamente un pipistrello, emetto ultrasuoni facendoli rimbalzare e provando a trarne traiettorie altrimenti inspiegabili, provo il tutto per tutto andando a ipotizzare vere e proprie visioni, ma di conigli non vedo traccia.

O meglio, non sono in grado di capire se ci sono, perché potessi farlo a quest’ora starei lì a fare impresa, e l’unica visione sicura che avrei sarebbe di me ai Caraibi a lanciare ghiaccioli ai delfini, scalzo sulla sabbia bianca di corallo sbriciolato.

Lo stato dell’arte, in fondo, è esattamente questo qui, una cornice di merda con dentro un quadro sfumato, incomprensibile.

Chiaramente, tutti abbiamo visto Matrix, possiamo ipotizzare che nel concepire una qualche resistenza, anche senza poter usare la vista, saremo in grado di schivare i colpi più pericolosi, e soprattutto di assestarne di mortali. Forse questi ultimi neanche saranno necessari, perché i Mr Smith del caso, sembra, si stanno già colpendo da soli, anche con una certa costanza. Quindi, nel buio più profondo, possiamo ripartire dalle basi, dall’alfabeto, come fossimo alle scuole elementari. Quindi studiare, certo, ascoltare, ma anche mettere in circolo musica che sia arte. Che quindi evidenzi il bello, punti al bene, o stigmatizzi l’orrore, il male.

Nella speranza, ultima a morire, come da prassi, che non sia troppo tardi.