Halsey è rock, punto e basta, col suo carico di poesia, anche disturbante

L'artista è la stella polare cui dobbiamo guardare in questa notte senza bussola e senza stelle dentro la quale siamo cascati


INTERAZIONI: 538

Sono un inguaribile romantico, ve l’ho spiegato giusto ieri. Ma proprio inguaribile inguaribile. E siccome mi sono innamorato definitivamente della musica a causa di una serie di album che, in qualche modo, ruotavano intorno al concetto di concerto e di quel che ai concerti gira intorno, su tutti Running on Empty di Jackson Browne, senza ombra di dubbio, ma anche New Adventures in Hi-Fi dei R.E.M., Banana Republic del duo Dalla/De Gregori e, andando ancora indietro nel tempo, In Concerto, de Le Orme, uno dei primi Live pubblicati nel nostro paese, ecco, siccome mi sono innamorato definitivamente della musica a causa di una serie di album che, in qualche modo, ruotavano intorno al concerto di concerto, quando dentro la mia televisione, tempo fa, è apparsa la serie Roadies, me ne sono pazzamente appassionato. Confesso che in realtà questa cosa di appassionarmi pazzamente di serie che ruotino intorno al mondo della musica succede spesso, diciamo tutte le volte che in effetti una serie che ruoti intorno al mondo della musica appare dentro la mia televisione, da Nashville a Empire, con i picchi assoluti di Vinyl e, appunto, di Roadies, ma Roadies, che intorno a quel che succede durante un tour a sua volta ruota, mi ha letteralmente rapito il cuore. Definitivamente.

Come nel caso di Vinyl, e anche di Nashville, si tratta di una serie che, evidentemente, non ha incontrato egual innamoramento appassionato da parte del pubblico, visto che la serie in questione è andata in onda solo per la prima serie, ma tant’è, il mio gusto e quello del pubblico generalista quasi mai coincide, ce ne faremo tutti una ragione.

Io me la faccio un po’ meno, a dire il vero, come è successo per Vinyl, perché quando una serie mi appassiona, un po’ come succede a chiunque, credo, vorrei non finisse mai. Figuriamoci se finisce dopo sole dieci puntate. E dire che, esattamente come nel caso di Vinyl, la squadra era sulla carta imbattibile, lì Martin Scorsese in combutta con Mick Jagger, per raccontare la scena punk rock della New York anni settanta, qui JJ Abrahms e Cameron Crowe per raccontare la vita di chi ai tour lavora. J J Abrahms l’ho molto amato ai tempi di Alias, una serie che, a mio avviso, ha sconvolto la grammatica di questo particolare genere di narrazione assai più del successivo e più acclamato Lost. Ho continuato a seguirlo sempre, ma con meno attenzione, anche se è indubbio sia un campione nel suo mestiere. Cameron Crowe, invece, caspita, uno che già ci aveva regalato quel capolavoro assoluto di Almost Famous, uno che era passato dallo scrivere giovanissimo di musica per Rolling Stone a scrivere e dirigere film, con quell’apoteosi lì. Come avrebbe mai potuto deludere una serie dedicata alla figura dei roadies, coloro che lavorano affinché tutto quel che succede sul palco possa succedere, a partire dal montaggio e smontaggio del palco medesimo?

In realtà la serie non racconta solo o tanto i roadies, ma anche le figure più di rilievo di un tour, dai promoter, al direttore di produzione, una immensa Carla Cugino, passando poi anche per quelle figure mitologiche. Siccome la serie è una serie seria, o almeno lo è stata nella breve durata delle dieci puntate andate in onda, le prime quattro dirette dallo stesso Crowe, a impreziosire il tutto, un po’ come in Nashville e in Empire, i cameo di artisti che interpretano loro stessi. Nello specifico, trattandosi della storia che ruota intorno al tour di una band inventata, The Staton-House Band, in ambito rock’n’roll, abbiamo potuto godere, è il vero e proprio caso di dirlo, della presenza in scena di John Mellencamp, di Jackson Browne, che non a caso ha interpretato proprio quella The load out che in Running on Empty più di qualsiasi altra traccia, e forse più di qualsiasi altra traccia in assoluto, raccontava la magia del tour e anche la figura del roadie, Eddie Vadder, Robyn Hitchcock, al momento, ci terrei a ricordare, in tour in giro per il mondo in compagnia della nostra Emma Tricca, e tanti altri. Tra i tanti altri anche una artista che, senza paura di essere smentito, ritengo una delle popstar più importanti di questa prima porzione del millennio, in buona compagnia con Lady Gaga, con Kendrick Lamar, con Billie Eilish, ma più di Billie Eilish, Halsey.

Ora, prima di passare a parlare di lei, in questa logica ormai cristallizzata che vuole si parta in queste mie novelle decameroniane parlando di pali per finire poi a parlare di frasche, ci terrei a aggiungere due parole su Roadies. Chiaro che la serie in questione non raggiunga i picchi di Almost Famous. Una serie tv segue altre logiche e molto probabilmente Almost Famous è venuto così perché  in quel film c’era davvero il vissuto personale dell’autore, oltre che la narrazione di un’epoca particolarmente fortunata che con ogni probabilità non tornerà mai più. Qui, però, c’è tutta la passione per un ambiente, quello che ruota appunto attorno ai tour, che solo chi ha vissuto può conoscere, con le sue luci e le sue tante ombre. Amore e passione, forse non sempre accessibile a tutti, perché un po’ troppo dato per scontato è l’ambito nel quale i protagonisti si muovono, quello appunto dei grandi tour rock americani, ma pur sempre un’ottima fotografia di un mondo altrimenti non raccontato.

Torniamo però a Halsey. So che inserire Halsey in mezzo a quei nomi lì, parlo dei cameo di Roadies, potrebbe far storcere il naso a qualcuno, anche perché oltre a loro c’erano altri nomi altrettanto importanti, mica li ho citati tutti. Ma il fatto è che Halsey ha davvero una marcia in più, chi ha avuto modo di ascoltare nel corso degli ultimi anni, uno dei suoi tre album non può che essersene accorto. Uscita con un capolavoro come Badlands, nel 2015, baciato dalla concomitanza con l’uscita della megahit in compagnia dei Charinsmokers, Closer, Halsey è riuscita nell’impresa mica da ridere non solo di mantenere alta l’asticella come raramente capita a chi spara già al primo colpo un pezzo da novanta, ma volendo anche di alzarla ulteriormente, sia col successivo Hopeless Fountain Kingdom che con il recentissimo Manic, anticipata da quella Without Me, uscita ormai quasi un anno e mezzo fa, che nel corso del 2019 è stata la canzone più trasmessa dalle radio americane, passando per Graveyard, uscita a settembre 2019, e poi da Clementine e Finally// Beautiful Stranger, a dicembre, e You Should Be Sad. Ora, sottolineare come Halsey abbia venduto quegli undici milioni di pezzi in cinque anni, e come abbia toccato quota venticinque miliardi di streaming sarebbe voler avvallare la tesi che schifo che chi ha successo vince, perché è noto che io non ritenga che il bacio del pubblico abbia un qualche peso sulla verifica e certificazione del valore artistico di un’opera e di una carriera, ma sta di fatto che Halsey è davvero uno dei rarissimi casi, almeno oggi, di un talento purissimo e compiutissimo che mette d’accordo critica e pubblico. E lo fa in virtù di una capacità davvero rara, quella di tenere in equilibrio, un equilibrio sulla carta impensabile, tipo la scopa che l’altro giorno stata dritta da sola per quella cazzata dell’inclinazione dell’asse terrestre, l’equilibrio tra la fragilità e la solidità, l’essere eterea e l’essere carnale, l’essere leggera e profonda. Ecco, Manic di Halsey, come i suoi lavori precedenti, è una sorta di prontuario di come anche i millennials, Halsey è nata Ashley Frangipane nel 1994, poco dopo che Kurt Cobain aveva sparato via ogni possibilità che il rock per come ce lo eravamo raccontati fino a quel momento avesse un futuro, una sorta di prontuario di come i millennials abbiano volendo una strada per praticare una scrittura che vada a fondo, sappia quindi di sangue e sudore, ma anche di animo e spirito. Operazione che, per dire, è riuscita alla perfezione a Lady Gaga, con quel suo citare sin dal nome i Queen e sin dalle prime immagini Bowie, ma che con Halsey prova a prendere le distanze da quell’immaginario per crearne uno nuovo, più consono a questi tempi. Operazione che sta provando anche una Tove Lo, di cui magari parleremo un’altra volta, con Halsey sola a poter puntare a incarnare un ruolo senza probabilmente ambire minimamente a farlo. Poco c’entra, credo, il sapere che Halsey viene dalla strada e dalla sofferenza, il suo nome è un anagramma del suo nome anagrafico, Ashley, ma anche un omaggio alla fermata della metro di New York presso la quale ha a lungo abitato nel periodo in cui viveva on the wild side, lei a cui è stato diagnosticato il bipolarismo da giovanissima, che a diciassette anni ha tentato un suicidio e che, letteralmente, si è salvata grazie alla musica, musica che ha cominciato a fare pubblicando cover su Youtube e che presto l’ha portata a diventare una delle popstar più famose al mondo, prima donna a aver avuto tre singoli in Hot Billboard 100. Halsey è una grande compositrice, ascoltatevi la canzone con cui apre Manic, suo ultimo lavoro, canzone che porta il suo nome di battesimo, Ashley, e che non prova neanche per un secondo a non dirci la verità, o ascoltatevi, la trovate proprio su Youtube, la versione fatta di fronte a una platea vuota di Ghost, nella scena di Roadies che la vede protagonista, lì a provare per il fonico la sua hit e al tempo stesso capace di spellarci il cuore come un mandarino con una naturalezza che, appunto, disarma e affascina. Non da meno Hold me down, interpretata per voce e chitarra, lei che in genere viene descritta come una popstar che si muove in ambito elektropop, accompagnata per l’occasione da Wes, roadie le cui gesta si raccontano nella serie, fuori di lì Colson Baker, cioè il rapper Machine Gun Kelly. Senza di lei col cavolo che oggi avremmo la popstar delle popstar, Billie Eilish, riconosciamoglielo. Ghost e Hold Me Down in queste versioni ben ce lo dicono. Anzi, ascoltatele e ditemi che Halsey non è quanto di più vicino al sano vecchio rock’n’roll che vi può venire in mente oggi, o meglio, la sua versione aggiornata, quella che potete citare, è quello che sto facendo esattamente in questo momento, quando qualcuno vi fa notare che sì, va bene difendere il sano vecchio rock tutto assoli di chitarra e riff, ma in fondo il sano vecchio rock tutto assoli di chitarra e riff è da almeno venti anni che non tira fuori niente di rilevane, magari anche venticinque. Esattamente l’età che ha Halsey, ripeto, nata poco dopo che Cobain aveva posto il punto finale a quell’epoca lì.

Hold Me Down, Ghost, Without Me, You Should Be Sad sono rock, amici belli. Halsey è rock. Bene ha fatto Cameron Crowe a chiamarla a fare un cameo in mezzo a Eddie Vadder, John Mellencamp e Jackson Browne. Era perfettamente a casa sua. Ci sarebbe potuta rimanere anche più a lungo, se solo avessero prodotto anche la seconda serie.

Halsey è rock, punto e basta.

Halsey è rock quanto lo è stata Patty Smith, col suo carico di poesia, volendo anche di poesia disturbante, so che farò rabbrividire alcuni, ma anche quanto lo è stata Blondie o Siouxsie, con quella carica di erotismo sbattuta in faccia, sfacciata ma al tempo stesso naturalissima, i suoi capezzoli che spingono da dentro la canotta nel video di Without Me, mentre al suo fianco il tipo vomita con la testa dentro il water, stanno né più né meno a Blondie che canta, la minigonna che nulla nasconde per la gamba appoggiata sulla cassa.

Halsey è rock.

Di più, Halsey è la stella polare cui dobbiamo guardare in questa notte senza bussola e senza stelle dentro la quale siamo cascati come chi cercava la luna nel pozzo.