Artisti in ascolto, proviamo a creare qualcosa che prenda vita da questa situazione di emergenza?

Chi volesse può mandare a me le sue composizioni casalinghe, fossero anche solo spunti da sviluppare, sarà mia premura creare connessioni a distanza, mettere in contatto, creare link


INTERAZIONI: 700

Toccherebbe farsi venire una bella idea. Sì, qui ormai le giornate si susseguono nell’impossibilità non solo di lavorare, il comparto dello spettacolo è sostanzialmente imballato, bloccato, ma anche di ipotizzare quando e come si potrà tornare a farlo. Le notizie che ci arrivano, gli input che ci arrivano, sono di natura differente, spesso in antitesi. Si passa in estrema serenità dal “Milano non si ferma” al “nessun anziano sopra i 65 anni d’età esca di casa per le prossime tre settimane”, con tutto quello che si trova legittimamente in mezzo.

Siccome però, su questo siamo tutti concordi, farsi fregare da un’epidemia, fosse anche la pandemia inizialmente paventata e poi rientrata, vallo a capire, significherebbe aggiungere il danno al danno, qui niente beffa, in effetti, è bene che qualcuno che lo sappia fare, che lo possa fare, si affretti a tirare fuori una bella idea dal cilindro, tanto per non lasciarsi andare a disperazione e nichilismo.

Sono padre di quattro figli, nel 2020, sono ottimista per attitudine, è evidente, e un po’ anche per forza. Quindi magari provo a tirarla io fuori un’idea, non necessariamente di quelle che risollevano il mercato, sono un intellettuale, non un Dio o un santo capace di fare miracoli, ma che quantomeno occupino il tempo da qui a quando tutto questo sarà solo un brutto ricordo. Lo sto già facendo, in qualche modo, con queste mie novelle decameroniane. Novelle che, però, hanno sconfinato, sono più delle dieci boccaccesche, anche perché il tempo del contagio, chiamiamolo così, letterariamente, sembra essere un pochino più lungo del previsto.

Allora, siccome sono il passatista di cui ho già parlato nei giorni scorsi, e più che altro siccome sono un appassionato della storia della musica del Novecento, non me ne vogliate, ma è il secolo nel quale sono nato e mi sono formato, penso che magari guardando a quel che è successo in un paio di occasioni importanti di quel lasso di tempo che ci ha traghettato al nuovo millennio potremmo trovare già bello e indicato quel che stiamo cercando. O meglio, che sto cercando. Chiaro, sono idee, che in assenza dei protagonisti diventano canoni, difficilmente replicabili, sono d’accordo ex ante con chi alzerà il ditino per provare a mettere in dubbio la sensatezza della mia proposta, ma l’alternativa è star qui a guardare le serie tv di Amazon Prime, belle, intendiamoci, ma alla lunga un po’ stancanti, meglio provare a fare qualcosa che ci coinvolga non solo come spettatori, o che se anche ci coinvolge anche solo come spettatori ha quel quid di originale, del fatto ad hoc, che male non fa.

Esattamente cinquantatré anni fa, poco meno, era l’inizio dell’estate, Bob Dylan, in ottima compagnia dei suoi musicisti dell’epoca, The Band, al secolo Robbie Robertson alla chitarra, Rick Danko al basso, Garth Hudson all’organo, Richard Manuel al pianoforte e Levon Helm alla batteria, si ritrovarono nello scantinato di una villetta tutta rosa, non a caso chiamata Big Pink, sita a West Saugerties, dalle parti di Woodstock, per registrare una serie di canzoni, poi divenute note sotto il nome di Basement Tapes. In realtà le location in cui le oltre cento canzoni in questione vennero incise furono sia a casa di Dylan, in quella nota come Red Room, che negli scantinati della Big Pink, che a Wittenberg Road, dove in seguito si trasferì parte del gruppo, ma per lo storytelling parlare di un’unica location è molto più efficace, siamo tutti d’accordo.

Brani in prevalenza tratti dalla tradizione americana, Dylan era rimasto molto suggestionato dalla raccolta The Anthology of American Folk Music, sei album curati dallo strambo musicologo Harry Smith, e in parte frutto del genio dello stesso Dylan e dei membri della band.

Il motivo per cui Dylan e soci passarono giornate intere a incidere canzoni su canzoni è semplice, quanto probabilmente forzato. Nel 1966, un anno dopo cioè la rivoluzionaria performance elettrica del menestrello di Duluth in quel del Folk Festival di Newport, evento di portata apocalittica per chiunque amasse la musica tradizionale americana, per intendersi, Dylan ebbe un brutto incidente con la moto, fatto che lo costrinse a una lunga pausa. Una lunga pausa probabilmente necessaria, anche in virtù di quella scelta rivoluzionaria, e anche delle reazioni scomposte, entusiaste, da una parte, assai violente, dall’altra, che detta scelta ha provocato. L’idea di ritirarsi a incidere musica, senza uno scopo preciso è stata quindi vista come la cosa più naturale, ma trattandosi di Dylan, non si è trattato certo di un momentaneo hobby, bensì di un’altra scelta rivoluzionaria, continuare a elettrificare la tradizione, renderla rock nella maniera in cui si intendeva il rock nel volgere degli anni Sessanta, e al tempo stesso mescolarla con composizioni proprie, intendendo per proprie non del solo Dylan, ma anche della band, The Band, non prima a pubblicare parte del materiale, l’anno seguente, col titolo Music From Big Pink, anticipando di sei anni la prima uscita a riguardo delle stesso Dylan. Non solo, musiche tradizionali, musica originali, folk che si fa rock, chitarre elettriche e organi laddove c’erano suoni acustici, certo, ma il tutto nello spirito della jam, anch’esso tipico di quell’epoca.

Non è certo mia intenzione raccontarvi qui, in poche righe, quel che fu quell’esperienza, c’è chi lo ha fatto talmente bene che sarebbe un peccato mortale rovinarne il lavoro per supponenza o noia. Andatevi a leggere Quella Strana Vecchia America di Greil Marcus, lì ci trovate davvero di tutto. Di più, andatevi a leggere tutti i libri di Greil Marcus editi in Italia, alcuni magari sono più difficili da reperire, ma vale davvero la pena perdere qualche tempo per cercarli. Questo libro e Like a Rolling Stone, intero tomo dedicato a una delle canzoni più note di Dylan, ci dicono del bardo di Duluth assai più di quanto non potrebbero dirci documentari o speciali tv, Greil Marcus è davvero capace di incantare con le parole. Chi non ha letto il suo seminale Tracce di Rossetto, forse, dovrebbe lasciare tutto e provvedere all’istante, anche leggere buoni libri è un ottimo modo per superare questo immobilismo, fidatevi.

Ovviamente ascoltarsi le registrazioni, divenute di dominio pubblico nel 2014, con un sestuplo cd che contiene 139 tracce, 30 delle quali totalmente inedite, perché se Marcus è capace come pochi di raccontare la musica, la musica stessa, a volte, è in grado di dirci quel che anche le parole non riescono a fare.

Ma questo, non credo sia necessario ricordarvelo, non è un articolo celebrativo dei Basement Tapes, non c’è una ricorrenza particolare, sempre che mi sia mai fregato di scrivere per anniversari o ricorrenze, né ci sono stati ulteriori sviluppi discografici, figuriamoci, viviamo nell’epoca dello streaming, del singolo usa e getta e io sto qui a parlarvi di un sestuplo con 139 brani.

No, sto cercando di tirare fuori qualche idea di facile sviluppo, con evidenti aspettative diverse, per passare i giorni del contagio, per superare questa empasse cui ci troviamo avvinghiati. Dylan e i ragazzi della Band erano costretti dall’immobilismo del primo a stare in casa, e da lì sono partite quelle sessioni, prendete questo primo dato e mettetelo da parte.

Circa quindici anni dopo, anzi, proprio quindici anni dopo, nel 1982, Bruce Springsteen si ritrova in una situazione non troppo diversa da quella che ha portato Dylan al suo Basement Tapes. Intendiamoci, Springsteen non ha fatto gesti rivoluzionari, proprio l’essere nato e cresciuto dopo Dylan e dopo quel suo concerto a Newport gli ha in qualche modo consentito di scrivere le canzoni che ha scritto senza creare scandalo, senza dividere. Anzi, nel 1982 è all’apice del successo, apice che in seguito ovviamente supererà, ma questo non può ancora saperlo. Ha pubblicato un doppio album come The River, una raccolta incredibile di racconti dell’altra America, quella degli ultimi, delle Badlands, dei perdenti, tutta gente che un tempo animava le canzoni folk, e l’ha fatto con una scrittura personalissima, unica, ma al tempo stesso potendosi avvantaggiare dei suoni potenti dell E-Street Band, suo braccio armato. Critica e pubblico lo adorano, non più solo in America. Il successo, per uno che canta i perdenti, è qualcosa che evidentemente non può che mettere in crisi. Per questo il Boss, come tutti lo chiamano, torna nel suo New Jersey, lui che da tempo ha fatto di New York la sua casa madre, e si ritira per incidere una manciata di canzoni di chiara matrice folk con un Revox a quattro tracce. Un registratore spartano, che concede poche possibilità, essenziale. Qui incide dieci canzoni, voce e chitarra acustica. Poi va in studio per farle suonare dalla E-Steet Band, ma il suono non lo convince, anzi, non gli piace proprio. Per cui, lui che è quello che già riempie stadi e arene con concerti infiniti all’insegna del rock decide di pubblicare l’album, il sesto della sua carriera, così come lo ha registrato in solitaria, come fosse una demo. Un album quindi a suo modo altrettanto rivoluzionario, nato da un isolamento auto-inflitto, Springsteen in compagnia di se stesso e della sua chitarra. Andatevelo a riascoltare, oh voi che vi siete trovati le mutande umide per le chitarrine scialbe di certi cantautorini indie, poi correte a farvi un bidet e chiedete scusa pubblicamente, ammettendo di aver confuso sciatteria per essenzialità, confidenzialismo da bar capacità di essere intimi anche nel momento in cui si raccontano le storie di altri, altri presumibilmente molto distanti da noi, se è vero come è vero che lo Springsteen è già una rockstar miliardaria che si ferma a raccontarci storie di bassifondi e di provincia desolata.

Ma non è neanche di Nebraska che parla questo articolo, fate attenzione. Certo, il consiglio di ascoltarlo, come di ascoltare i Basement Tapes e di leggere Greil Marcus rimane, sincero.

Oggi, però, si parla di conigli che saltano fuori da cappelli. E il coniglio che vorrei tirare fuori oggi dal cappello, visto che siamo isolati, magari non fisicamente, a parte chi sta nelle zone rosse credo che tutti possiamo uscire di casa, ma nell’impossibilità di ritrovarci in quei locali in cui si fa musica, come in quelli in cui si fanno incontri pubblici, quindi in una sorta di isolamento parziale, molto anche mentale, il coniglio che vorrei tirare fuori oggi dal cappello è un coniglio che prova a mettere insieme le esperienze sopra raccontate con quello che questo Coronavirus in qualche modo ci ha costretto a fare. Chi vi scrive, cioè io, lavora in casa. Non solo, ovviamente, perché vado a concerti, incontro artisti, editori, gente, ma il mio studio, il posto dal quale vi scrivo in genere e dal quale vi scrivo anche oggi è in casa. Adesso, per capirsi, sono in ciabatte, quanto di più lontano dall’estetica rock ci possa essere lo so bene, ma era per rendere bene l’idea. Chi vi scrive, cioè io, quindi, lavora in casa. Ma nelle ultime settimane molti, su al nord, hanno dovuto improvvisarsi lavoratori in casa. Molte aziende, specie le grandi aziende, le multinazionali in primis, hanno chiuso i battenti, chiedendo il telelavoro. Certo, lo hanno chiamato smart working, che fa più figo, ma sempre telelavoro è. Ora, coniugare l’idea alla base dei Basement Tapes e di Nebraska con lo smart working potrebbe suonare strano, ma se la tecnologia ha reso possibile telelavorare, cribbio, potrebbe anche rendere possibile un mezzo miracolo in campo creativo. Del resto abbiamo assistito più e più volte a collaborazioni a distanza, anche tra gente viva e gente morta, perché non dovrebbe essere possibile farlo volendo.

Quello che sto provando a dire, mentre i miei quattro figli mi interrompono in continuazione per chiedermi ragguagli sui tanti compiti che, alla seconda settimana di scuole chiuse, stanno cominciando a piover loro addosso, è questo: proviamo a fare una versione italiana dei Basement Tapes? Proviamo, cioè, artisti in ascolto, a creare qualcosa che prenda vita da questa situazione di emergenza? Che renda l’apocalisse imminente fonte di ispirazione, e quindi si tramuti in arte?

Non sono Bob Dylan, credo si sia notato, né sono Bruce Springsteen, ma non ho problemi di gestione del mio ego, quindi mi faccio in prima persona promotore di questa iniziativa. Mi faccio collettore di questa iniziativa.

Chi volesse può mandare a me le sue composizioni casalinghe, fossero anche solo spunti da sviluppare, sarà mia premura creare connessioni a distanza, mettere in contatto, creare link.

Serve che faccia qualche nome? Serve, cioè, che stani direttamente io chi potrebbe dare il là a questa situazione? Figuriamoci, non mi fa certo fatica metterci la faccia.

Alberto Fortis, ci sei?

Carlo Marrale, ci sei?

Piero Cassano, ci sei?

Marco Ferradini, ci sei?

Ron, ci sei?

Enrico Ruggeri, ci sei?

Red Canzian, ci sei?

Gianni Togni, ci sei?

Partiamo da qui. Da chi ha scritto pagine della storia della nostra canzone. Partiamo, comunque, che di stare fermi ci siamo tutti rotti le palle. Proviamo a vedere di far circolare qualche idea. Le nostre personali registrazioni della cantina, i nostri racconti al tempo del colera. La mia cantina è la vostra cantina, parafrasando il famoso Mi casa es tu casa. Non è rosa, ma con un po’ di fantasia  ce la possiamo pure immaginare così.