Mi sono goffamente ritratto dal giornalismo perché volevo la libertà di inventarmi le cose. Non volevo essere inchiodato alla verità

Vi riporto questa frase di Neil Gaiman per farvi capire un po' di più il mio pensiero


INTERAZIONI: 318

Giorni fa, prima cioè che cominciasse tutto questo delirio dell’isolamento, delle scuole chiuse, della Milano che è immobile ma dichiara di non fermarsi, sono stato in casa di un compagno di classe di mio figlio piccolo, Francesco. Ci sono stato perché, una domenica pomeriggio, il compagno di classe di mio figlio ha festeggiato il suo compleanno, invitando alcuni dei suoi amici. Ci sono stato alle sedici, accompagnandolo, e ci sono tornato un paio di ore dopo, con mia moglie Marina, invitati dai genitori per un aperitivo.

Era appena finito Sanremo, quindi eravamo in piena zona Bugo vs Morgan. So che ora può sembrare incredibile, ma la questione Bugo vs Morgan è stata centrale nelle nostre vite per parecchi giorni, un po’ come nelle ore recenti lo è diventata la partita rinviata tra Juventus e Inter e gli Oreo che collaborano con la Ferragni. Viviamo in un mondo bizzarro, facciamocene una ragione.

Comunque, siamo lì a casa del compagno di classe di nostro figlio, io, mia moglie e un altro tot di genitori di bambini piuttosto scalmanati. Tutti, chi più chi meno, mi chiedono del Festival, con quella curiosità mista a stupore che il sapermi impegnato professionalmente a parlare del Grande Nulla non mi abbia portato ancora né alla fame né all’incarcerazione.

A un certo punto, dopo aver cercato di spiegare che nella vita, in effetti, mi pagano per scrivere di canzoni, detto in maniera un po’ meno pedestre e più articolata, sono un uomo di parole, mi sono accorto che proprio di fronte alla porta di ingresso, dove nel primo pomeriggio, quando avevo portato lì Francesco, campeggiava un Uomo Morto, come viene chiamato quel tipo di appendi soprabiti che di solito si trova negli ingressi delle case, ora c’era un cumulo indistinto di cappotti e giacche a vento, le nostre, di noi adulti, e tutte quelle dei bambini. Sono fatto così, mi doveste chiedere di che colore è tinteggiata la sala dentro la quale ho passato circa un’ora non saprei dirvelo, perché sono del tutto distratto riguardo aspetti anche palesi, ma poi mi concentro su passaggi anche inutili, che però rapiscono tutta la mia attenzione. Sono fatto così di natura, certamente, e il fatto che il mio lavoro non richieda una mia particolare attenzione a riguardo non ha fatto che acuire questa mia attitudine.

Altro dettaglio, prima del cuore dell’aneddoto, necessario per comprendere meglio quel che è accaduto. La casa del compagno di classe di mio figlio Francesco che ha festeggiato qualche settimana fa gli anni è una casa in zona residenziale di Milano, molto di design, curata nei dettagli, da poco ristrutturata.

Ecco, c’è quindi questa casa molto bella e curata, con tanto di biliardino, anch’esso di design, con cui i nostri figli hanno giocato durante il pomeriggio, e là dove c’era un Uomo Morto ora c’è un cumulo indistinto di cappotti e di giacche a vento, non so perché ma mentre lo scrivevo nella mia testa suonavano le note del Ragazzo Della Via Gluck, capite che non sono proprio normale. Torniamo a quel pomeriggio, siccome ho da poco raccontato per l’ennesima volta il mio Sanremo a non ricordo quale dei genitori, e siccome sono giorni, stiamo parlando di un paio di settimane fa, che non si parla d’altro che della questione Bugo vs Morgan, con migliaia di meme che riportano il testo della canzone col testo cambiato da Morgan e con il Morgan che dice “cosa è successo” che ha animato qualsiasi cosa, ecco che mi viene un colpo di genio. Coi due genitori del festeggiato di fianco a me indico il cumulo di cappotti e giacche a vento e, imitando la voce roca e sfiatata di Morgan canticchio sulle note di Sincero “certo disordine è una forma d’arte”, andando a fare una citazione filologicamente corretta dell’invettiva lanciata dall’ex leader dei Bluvertigo dal palco dell’Ariston. Nella mia testa sono già partiti applausi al limite della standing ovation, quando la realtà mi presenta uno scenario completamente differente, tragicomico. I due genitori, imbarazzati, mi dicono all’unisono “No, guarda, di solito è più ordinato, poi dopo mettiamo tutto a posto”, come a giustificare la momentanea défaillance. Col che capisco, e con me mia moglie Marina, nel mentre giunta al mio fianco e testimone di tutta la scena, che i due genitori del festeggiato non hanno minimamente idea di quel che Morgan ha fatto sul palco dell’Ariston, men che meno conoscono la canzone col testo cambiato e possono quindi aver capito la mia citazione filologicamente impeccabile. Magari sanno che Bugo, di cui probabilmente fino al giorno prima non avevano neanche mai sentito parlare, ha lasciato il palco per una lite con Morgan, ma non hanno seguito più di tanto la cosa, non potendo capire la mia battuta canora.

Ora, fossi stato in un altro momento dell’anno, cioè non fossi stato debilitato fisicamente e psicologicamente dall’aver parlato per cinquantatré ore di fila durante il Festival avrei tranquillamente spiegato loro che si trattava di una gag, che stavo riprendendo pedissequamente le parole cantate da Morgan a Bugo, spiegando, quindi, che il mio era un gioco scherzoso, ma siccome il Festival è passato da poco, ripeto, parlo di un paio di settimane fa, e siccome sono devastato, lascio che il destino decida per il mio futuro, preferendo passare per l’eccentrico stronzo che va in casa degli altri a dare ai padroni di casa dei disordinati, per di più cantando, piuttosto che addentrarmi in spiegazioni razionali. Ovviamente suppongo che non avrò più modo di mettere piede in quella casa, e mio figlio con me. Sono un padre snaturato, è bene che lo sappia sin da subito.

Il fatto è che lavoro in un ambito piuttosto strano, quello della musica, un ambito che spesso mi fornisce agio di rompere subito il ghiaccio con gente con cui non ho confidenza e con la quale devo passare un numero limitato di tempo, i genitori dei compagni di classe dei miei figli, tipo, ma anche i vicini di casa che pensano io lavori per Striscia la Notizia e scambiano le quattro chiacchiere che capita di scambiare mentre si aspetta che arrivi l’ascensore come se io fossi il tizio che si muove dentro il Gabibbo dicendo “Belangi”, perché la musica è il mio lavoro ma fa parte anche delle vite di praticamente tutti gli altri, ma un ambito che spesso per gli altri è semplicemente un ambito che col mondo del lavoro nulla ha a che fare, al punto dallo spingere un po’ tutti a chiedermi di spiegare nello specifico cosa io faccia per vivere, a volte mettendo in dubbio la veridicità di quel che dico, suppongo dalle facce che mi trovo di fronte.

Pochi istanti prima di quella mia involontarissima gaffe, sempre per restare nello specifico, mi ero trovato a dire a altri due genitori che mi palesavano la difficoltà di spiegare al loro figliolo che lavoro facesse il papà di Francesco, cioè io, che avrebbero potuto dire in maniera più spiccia che lavoravo in radio, fatto più facilmente decifrabile, immaginavo, per un bambino di otto anni. Nei fatti, ma questo mi era stato chiaro subito dopo, dalla serie di domande che i due mi avevano rivolto, la difficoltà di decifrare quel che facevo risiedeva prima in loro, i genitori, che nel figliolo, per cui mi ero lasciato andare anche a frasi che potessero meglio spiegare il tutto, considerate sempre la stanchezza e poca lucidità di quelle ore.

Perché, lavori in radio?

“Sì, ho appena fatto Sanremo per Rtl 102,5, con la Gialappa’s e Mara Maionchi. Negli anni passati lo avevo fatto con Pio e Amedeo e con la Maionchi e Cristiano Malgioglio. Anzi, fino all’anno scorso avevo anche un mio programma, una mia rubrica, ma adesso mi sono stancato, faccio solo la settimana di Sanremo e poi basta”.

Silenzio.

Silenzio attonito.

Riavvolgiamo il nastro.

Analizziamo il dialogo nel dettaglio, serve.

Ho appena detto a due genitori di un compagno di classe di mio figlio Francesco, che mi chiedevano cosa faccio esattamente di lavoro, spinti un po’ dalla curiosità, ovvio, magari eccessiva, perché io non è che abbia mai chiesto loro esattamente che lavoro facciano, ma non invadente, direi legittimati a farlo dal mio lavorare in un campo un po’ fuori dal comune, di quelli che poi ti portano in televisione o a stare a fianco a personaggi piuttosto noti, ecco, ho appena detto a due genitori di un compagno di classe di mio figlio Francesco, che mi chiedevano cosa faccio esattamente di lavoro, che io lavoro una settimana all’anno per Rtl 102,5, e che ho smesso di lavorare per Rtl 102,5 durante il resto dell’anno, perché mi sono stancato. Ho addirittura aggiunto “mi stavo annoiando,” credo, ma magari è solo una di quelle distorsioni della memoria che tutti pratichiamo, e che nel mio caso specifico sono spesso atte a rendere i miei ricordi spendibili a uso pubblico, come in effetti sta accadendo ora. Ho appena fatto ciò, che lavoro per Rtl 102,5 una settimana all’anno e che per il resto ho smesso perché mi ero stancato, senza specificare che durante il resto dell’anno faccio altro, come adesso, che è notte fonda e io sto qui a raccontarvi di loro, e quindi sottintendendo che io lavori una sola settimana all’anno, durante Sanremo, in compagnia della Gialappa’s e di Mara Maionchi, sticazzi.

Per dirla proprio con Morgan che ha blastato Bugo sul palco dell’Ariston, questo sono io.

O almeno, questa è la versione di me che presumibilmente in parte passa da quel che scrivo, da quel che dico, da quel che faccio. Un versione che, suppongo, tiene conto anche del fatto che nel mentre io dica, scriva e faccia cose sui social che contribuiscono a creare quel certo immaginario intorno a me, e che poi dica e faccia cose anche nella vita reale, non sempre sopra le righe come nei due casi sopra riportati. O almeno credo.

In quel che dico e faccio sui social, questo mi è evidente perché spesso mi capita di parlarne, l’aspetto che più colpisce i miei amici e conoscenti, quelli che incontro fuori dal mondo dei social, o che incontro anche fuori dal mondo dei social, è la gestione degli haters.

Perché chi mi frequenta nella vita di tutti i giorni sa bene, mi vede, mi sente, mi conosce, che il tizio verbalmente violento, l’hooligan che nulla teme e la cui furia nulla può arginare è un po’ meno irruento dal vivo, sa bene, cioè, che io sono un pacifico padre di famiglia, pazzamente innamorato di sua moglie e dei suoi quattro figli, non esattamente il sociopatico con la mazza da baseball ricoperta dal filo spinato tipo la Lucille di Negan che si trova poi a scrivere di musica.

Non sono così, è così che mi dipingono, direi, se fossi Jessica Rabbit.

Chi mi frequenta nella vita di tutti i giorni, però, fatica a capire come io possa dormire tranquillamente dopo essermi preso a male parole con cantanti e fan dei cantanti sui social, magari anche per qualche ora di filo. Cioè, è cosciente, perché questo lo spiego sempre pacatamente, che il mio stare sui social è più un lavoro che un passatempo, di qui le tante energie dedicate allo scrivere i post e gestire i commenti, ma che parte del mio lavoro sia ricevere auguri di morte, per me e i miei congiunti, o valanghe di insulti, valanghe cui spesso rispondo con precisione chirurgica, colpo su colpo, diventa più ostico da comprendere.

Il fatto è che non credo, e non lo credo davvero, con quelle certezze dogmatiche che difficilmente si possono trovare di fronte a riscontri scientifici, le cui risposte possiamo quindi solo trovare in noi, ecco, il fatto è che non credo davvero che chi mi augura la morte in effetti vorrebbe realmente vedermi morto, più di quanto non vorrebbero davvero che io venissi licenziato, altro fatto invocato con una certa frequenza. Magari ritengono realmente che io sia incapace, incompetente, forse addirittura credono ciecamente che io sia mosso da una qualche inspiegabile forma di invidia, il famoso rosicamento, inspiegabile dal momento che non scrivo quasi mai, anzi, proprio mai di chi in teoria fa il mio stesso lavoro, quindi fatico a intuire cosa mai avrei da invidiare a chi nella vita fa altro, con più o meno successo di quanto non ne abbia io nel mio campo, fatto del quale in tutta onestà faticherei piuttosto a lamentarmi, oggi come oggi. Credo che quello sia uno sfogo, magari uno sfogo frustrato dal vedere messe nere su bianco parole che non si ritengono vere, sempre che sia possibile applicare il concetto di vero alla critica, musicale o di qualsiasi altra forma d’arte, o, peggio ancora, uno sfogo frustrato dal vedere messe nero su bianco parole che nel profondo del proprio cuore si ritengono sacrosante, ma che leggere fa anche per questo assai male, come quando la nostra amica del cuore vi fa notare che se tizio in effetti flirta con mezza scuola non è perché è particolarmente simpatico, ma perché ha una tendenza a flirtare con qualsiasi essere senziente che neanche Casanova nei giorni in cui era in forma. Motivo per il quale, anche nel momento in cui mi ritrovo, magari, a tirare in ballo le corna del padre di chi mi sta insultando, usando la frase tipo “questo lo potrai dire a quel cornuto di tuo padre, il giorno in cui finalmente saprai chi è”, ecco, anche in quel momento specifico io stesso sto dando vita a una sorta di canone, un canone che in quanto tale risponde più a una decodifica che a una reale intenzione bellicosa, come dire, sto parlando per costrutti, non sto provando a ferire chi neanche conosco. Non vorrei ferire neanche chi conosco, sia messo agli atti, neanche chi, è capitato proprio a Sanremo, mi ha creato danni e messo in difficoltà organizzative, anche se non è detto che prima o poi subisca lo stesso trattamento del cavallo che affoga dal culo, figuriamoci di chi mi scrive quattro cazzate nascosto da un nick name a chilometri e chilometri di distanza. Se poi chi mi insulta e augura la morte, nei fatti, lo sta facendo realmente, col cuore, beh, mi dispiace per lui, si vede che vive proprio male.

Io sono un uomo risolto, vivo bene la mia vita, mai vorrei infliggere sofferenze agli altri, ovvio che non lasci modo agli altri di infliggerne a me.

Il fatto è che vivo lo scrivere come una costante ricerca di verità, questo spero mi venga riconosciuto, ma non per questo prendo per vero tutto quello che mi si scrive. Non è neanche tecnicamente vero neanche tutto quello che scrivo io, se non, appunto, nella costante ricerca della verità. Ben lo sa, per dire, mia madre, che spesso si ritrova a farmi le pulci sui miei ricordi di infanzia, specificando come io abbia raccontato questo o quell’episodio distorcendo i fatti. Ecco, a me dei fatti non interessa affatto. Non sono mica un cronista, io. Non sono neanche un giornalista, per scelta, sono uno scrittore e un critico musicale, c’è una bella differenza. E siccome a volte mi capita di leggere qualcuno che riesca a dire quel che penso meglio di come lo direi io, è raro ma succede, voglio chiudere questo articolo citando l’incipit dell’introduzione che Neil Gaiman ha scritto per il suo libro, bellissimo, Questa Non è La Mia Faccia. In questi giorni di reclusione in cui ci siamo infilati andatevelo a leggere, approfittatene.

Neil dice questo, e vorrei vedere queste parole sulla mia epigrafe, se mai dovesse capitare anche a me di morire, prima o poi: “Sono scappato, o meglio mi sono goffamente ritratto dal giornalismo perché volevo la libertà di inventarmi le cose. Non volevo essere inchiodato alla verità; o, per essere preciso, volevo essere in grado di dire la verità senza dovermi preoccupare dei fatti”.

Questo sono io.