Si può essere hardcore col cuore tenero

Passano gli anni ed io ancora spero che Henry Rollins mi faccia una telefonata, mi mandi una mail o semplicemente un messaggino su Whatsapp


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Sono sempre stato un tipo romantico, in fondo. Era il 1988, per dire, e i CCCP capitarono a suonare dalle mie parti, al Gratis di Senigallia. Eccolo, si stava per realizzare uno dei miei sogni giovanili, andare a sentire Zamboni e Ferretti, rigorosamente in questo ordine, perché io sono sempre stato uno zamboniano, sin dall’inizio. Da pochi mesi mi ero messo con la ragazza di cui ero follemente innamorato da almeno un paio di anni, Marina, colei che oggi, trentadue anni dopo i fatti narrati, è mia moglie e madre dei nostri quattro figli, entrambi avevamo diciott’anni, anzi, io ne avevo da pochi giorni fatti diciannove. Era estate, fine giugno, e io sarei dovuto essere in vacanza con i miei compagni di GS, il gruppo studentesco di Comunione e Liberazione. Lo so, un fan dei CCCP che frequentava CL è qualcosa che uno lo dice e sgrana gli occhi più della ormai celebre tifosa inquadrata alla fine di Lazio-Juventus, 3-1 per i biancocelesti, ma all’epoca ero così, un ragazzo piuttosto curioso che frequentava la scuola di comunità di Giussani ma non disdegnava ascoltare punk e harcore, come di leggere Bukowski, Bret Easton Ellis o Hubert Selby Jr. Del resto la vita mi avrebbe poi portato a seguire altre strade, decisamente più dalle parti di Zamboni e Selby Jr che di Giussani, ma è di quei tempi lì che vi sto ora parlando. E a ben vedere, la parabola che ha portato Ferretti a diventare un fan di Salvini e la Meloni, senza dover tirare in ballo il passaggio a Atreju sembrerebbe giustificare il tutto, non che ce ne fosse bisogno.

Sarei dovuto quindi essere in vacanza a Madesimo, in Valtellina, con GS, ma mi ero rifiutato proprio perché volevo fare compagnia a Marina nei giorni che precedevano il suo esame di maturità. Io ero un anno indietro, avendo ricominciato le superiori iscrivendomi al Liceo Classico dopo un primo anno di Ragioneria, ma lei era giustamente arrivata alla maturità. Lasciarla a casa a studiare mentre io me ne andavo con gli amici a divertirmi mi pareva qualcosa di poco carino, quindi ero rimasto. In realtà quel mio gesto avrebbe sancito la mia rottura, allora non ancora definitiva, con CL, perché Don Alberto, che era il sacerdote che seguiva noi ragazzi mi diede un aut aut, “o vai in vacanza o sei fuori dal gruppo responsabili”, mi aveva detto, “e non potrai neanche andare a lavorare al Meeting,” aveva aggiunto. Detto così suona strano, perché in realtà al Meeting di Rimini ci si andava come volontari, non a lavorare. Nel senso, eravamo noi a pagare per lavorare lì, non viceversa. E a pensarci bene la minaccia di non poter andare a fare i volontari suona ancora più strana, ma nei fatti andarci era uno dei momenti topici del nostro frequentare GS, perché al Meeting si facevano un sacco di begli incontri, e non parlo certo solo degli incontri pubblici, parlo di vita vissuta. Ci ero stato due volte e devo dire che entrambe erano state leggendarie. Stavolta avevo davanti un aut aut, e scelsi di seguire il mio cuore, mandando neanche troppo metaforicamente a cagare don Alberto. Rimasi ancora per un po’ a frequentare CL sempre per amore, perché Marina, che era entrata in realtà più per frequentare me, diciamolo apertamente, non aveva ancora maturato la mia stessa volontà di andarsene, e mi sembrava giusto che lo facesse autonomamente, non spinta da me.

Comunque, ero rimasto in Ancona per farle compagnia, quando Roberto e Paolo, i due fratelli Bartola che abitavano sotto casa mia negli anni in cui la mia famiglia si era trasferita nella zona ricca causa terremoto, Roberto sarebbe poi diventato il bassista della mia band punk, gli Epicentro, mi chiamarono per invitarmi al concerto al Gratis dei CCCP. Era a Senigallia, a una ventina di chilometri da Ancona, e all’epoca quasi nessuno che ci piacesse veniva a suonare dalle nostre parti, a eccezione della Gang dei mitici fratelli Severini.

Di istinto avrei ovviamente detto di sì, perché io amavo i CCCP, e trovavo le loro canzoni geniali, come del resto le trovo ancora. Al punto che lo dissi entusiasta anche a Marina, la quale, da vera donna quale è, mi disse: “Certo, vai pure, io resto a casa a studiare”.

Sono un gemello, l’ho raccontato più volte. Un gemello del segno dei gemelli, per di più. Non so se vi intendete di gemelli, inteso non come segno zodiacale, ma proprio come gemelli nel senso di fratelli nati dalla stessa gravidanza. Se vi intendete di gemelli ben saprete, vuoi perché in genere i gemelli nascono di otto mesi, quindi un mese in anticipo rispetto in non gemelli, vuoi perché si abituano sin da subito a una condizione di diversità, fin da quando dividono placenta, non sempre, e utero con il proprio gemello o la propria gemella, vuoi perché una volta nati si troveranno a doversi dividere il tempo e le attenzioni dei genitori, vuoi perché nella vita spesso si troveranno in situazioni in cui il loro essere gemelli li porterà a affrontare bizzarrie e amenità, i gemelli sviluppano sin da subito un senso di autonomia che in genere i non gemelli acquisiscono col tempo, molto dopo di loro. Non voglio dire che i gemelli siano più svegli degli altri, ma in qualche modo lo sono, prendetene atto. Per questo, nel sentire Marina che mi diceva quella frase un campanello di allarme mi si è acceso in testa. Di più, una campana tipo quelle della cattedrale il giorno della festa del patrono. Qualcosa che suonava come un “Allarme, allarme, allarme”. Ci ho messo pochi secondi a capire che, come oggi capita di leggere in qualche simpatica meme sui social, in realtà il suo dire volesse intendere tutt’altro. Qualcosa che suonava come “Non ti azzardar a muoverti di qui, bastardo, tu lì a bere e divertirti mentre io devo studiare”.

Così, spinto da questo innato senso di sopravvivenza che essere un gemello, per di più un gemello sopravvissuto al proprio gemello, morto durante il parto, ha radicato in me ho detto ai fratelli Bartola che no, quella sera non sarei andato con loro a vedere i CCCP. “Sarà per la prossima volta,” ho chiosato. 

Mettetevi nei miei panni.

Avevo diciannove anni appena compiuti. Per amore avevo appena rotto col prete che seguiva il gruppo di ragazzi nel quale erano entrati tutti i miei amici, tutti esattamente per il mio medesimo motivo, conoscere ragazze. Molti di loro, per altro, sono ancora lì. Mi sentivo sufficientemente coraggioso per tenere testa a tutto questo, ma non abbastanza per sfidare l’ira di una scorpione ascendente leone come Marina, specie una scorpione ascendente leone sotto esame di maturità. Ma nel dire, “Sarà per la prossima volta,” lo confesso, ho pensato, forse anche a voce alta, “Ma quando cazzo capiterà una prossima volta in cui i CCCP verranno a suonare a venti chilometri da Ancona, quando cazzo capiterà?”. Una sorta di premonizione, per altro, perché di lì a pochi mesi i CCCP si sarebbero sciolti, per confluire nei CSI, sancendo in qualche modo una evoluzione della band, raccontiamocela così, ma anche la fine di un’epoca (del resto esattamente poco dopo sarebbe finita anche l’epoca dell’Unione Sovietica a cui i CCCP si ispiravano, già lo sapete).

Quando però lessi la notizia, non ricordo se già su Rumore o su Rockerilla, cioè che i CCCP si erano sciolti, una crepa sul cuore mi si formò ugualmente, perché sapevo che quell’occasione in effetti non sarebbe poi ritornata.
Il destino però mi stava prospettando altro, e anche questo io non potevo saperlo. Anni dopo, quando ormai vivevo a Milano, lavoravo in editoria, alla Mondadori, e Marina era diventata mia moglie, cominciai a lavorare per la Piccola Biblioteca Oscar, una sottocollana degli Oscar che, a differenza della collana principale pubblicava anche inediti, cominciai a lavorare per la Piccola Biblioteca Oscar dirigendo una sezione che voleva in qualche modo aprire una breccia alla Mondadori nei centri sociali. Avevamo infatti identificato nel nascente mondo del Tora! Tora!, cioè nell’underground musicale che aveva negli Afterhours, nei La Crus, nei Subsonica e nei Marlene Kuntz i propri alfieri, dei nomi capaci di traghettare una casa editrice che per anni era stata considerata reietta a causa della proprietà di Silvio Berlusconi in luoghi dove di cultura se ne faceva in tutti i casi. L’idea che avevo proposto e che stavo curando era proprio quella di far scrivere libri di narrativa ai nomi principali di quella scena, provando quindi a creare una scena letteraria che si sovrapponesse a quella musicale. Nel giro di qualche mese pubblicarono per noi Manuel Agnelli, con Il meraviglioso tubetto, i La Crus, con il libro Crocevia e Cristina Donà, col libro Appena sotto le nuvole, poi sarebbe stata la volta di Luca Morino dei Mau Mau, ma io nel mentre avrei mollato l’operazione, non prima di aver pubblicato insieme a Cristina Donà un libro dal titolo God Less America. Stavo quindi lavorando a questo progetto, motivo per il quale avevo cominciato a intrattenere un fitto rapporto epistolario con gente come Francesco Di Bella dei 24 Grana, Umberto Maria Giardini, in arte Moltheni, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz. Lavoravo anche a Tutto Musica, per cui del Tora! Tora! mi occupavo anche come critico musicale (anche se, credo, il Tora! Tora!, inteso come Festival, sarebbe arrivato un paio di anni dopo).

Un giorno ero a piedi dalle parti della Stazione Centrale quando mi arriva una telefonata sul cellulare. All’epoca di telefonate sul cellulare ne arrivavano molte meno di oggi, perché costavano molto di più, perché ancora esistevano i fissi, perché non c’era whatsapp e anche gli sms erano rari, e soprattutto perché non lavoravo tanto come oggi. Mi arriva questa telefonata da un numero che non conosco. Non ricordo neanche se c’era già modo di sapere chi ti stesse chiamando, probabilmente no. Rispondo e dall’altra parte del telefono c’è un tizio dal forte accento emiliano che mi dice “Ciao, parlo con Michele Monina? Tu non mi conosci, sono Massimo Zamboni, avrei piacere di incontrarti per parlarti di un mio progetto.

Ora, potete ben immaginare come io abbia reagito a questa telefonata. All’epoca mi capitava, sempre per Tutto Musica o per Panorama, altra rivista per la quale scrivevo, di incontrare gente come Beck, Trent Reznor, Lou Reed, Perry Farrell, dei Jane’s Addiction, ma quello era Massimo Zamboni dei CCCP. In realtà era Massimo Zamboni e basta, perché aveva da poco mollato i CSI, rompendo definitivamente con Giovanni Lindo Ferretti e finendo in quella strana situazione di tifoseria che spesso avvolge chi ha fatto parte di una o più band caratterizzate da un forte binomio, e lungi da me il far pesare a quanti all’epoca avevano parteggiato per Ferretti la fine che Ferretti ha fatto di lì a oggi.

Era Massimo Zamboni che voleva incontrare me, e provava a presentarsi perché io non sapevo chi era, capite? Voleva incontrarmi per propormi un suo libro, lui proporre un suo lavoro a me, figuriamoci.

Nei fatti, e la storia poteva anche fermarsi qui, io poi Massimo Zamboni l’ho incontrato. E siamo diventati amici.

Almeno per un po’ di ci siamo frequentati con assiduità. Lui si era ritirato, aprendo un Bed and Breakfast sulle colline emiliane. Con mia moglie e mia figlia grande, che allora era piccolissima, siamo andati più volte a passare fine settimana da loro. In uno di quei fine settimana Massimo mi ha fatto sentire, ci ha fatto sentire, sdraiati sul prato antistante la casa, il cielo stellato sopra di noi, i provini di Sorella sconfitta, album in cui Massimo era accompagnato dalle voci di Fiamma, a sua volta mia amica, Lalli, Nada e Marina Parente. Mi ricordo ancora oggi quando mi disse, prima che partisse la prima canzone, “Tieni conto che il suono è un po’ grezzo perché da quando lavoro i campi mi si sono riempite le mani di calli”, come se in precedenza il suo suono fosse chissà quanto elegante e lieve. Sempre in quegli anni lui avrebbe pubblicato un suo romanzo, Emilia parabolica, che ebbi l’onore di leggere in anteprima e che lui avrebbe voluto pubblicare per la collana che seguivo per la Piccola Biblioteca Oscar, collana che poi pubblicò Il mio primo dopoguerra, quando ormai io me ne stavo andando, partito per una carriera da scrittore che sarebbe per me durata un decennio. Ogni volta che ci siamo visti, prima di perderci di vista, vuoi per i figli che crescono, vuoi per la lontananza, vuoi perché Massimo ha giustamente ripreso a fare il suo lavoro di artista con la musica, non prima di essere stato per qualche tempo l’Assessore alla Cultura e al Turismo di quel paesino sull’Appennino, come dimenticare quando abbiamo passato un paio di giorni in compagnia di Christopher Lee, giunto in loco per ricevere la cittadinanza onoraria, lui che aveva avi da quelle parti e che nel mentre era diventato una delle facce più note del cinema di genere al mondo, ogni volta che ci siamo siamo visti, prima di perderci di vista, io non ho mancato di ricordare a Massimo come avessi ciccato per un pelo l’ultimo concerto dei CCCP, quella sera al Gratis di Senigallia, felice che il destino mi avesse poi concesso una seconda chance decisamente più personalizzata.

Nei mesi scorsi si sono celebrati, e ci mancherebbe pure che non si celebrassero, i trentotto anni dall’uscita di Damaged, disco d’esordio dei Black Flag. Quando ero un ragazzo che cresceva a punk e hardcore, proprio in quegli anni, poco prima, cioè, di cominciare a suonare con la mia band punk, gli Epicentro, cullavo l’idea che un giorno mi sarei tatuato il simbolo dei Black Flag sul braccio sinistro, mentre sul destro avrei tatuato il codice a barre del mio primo album, primo album che nei fatti non è mai uscito, sempre che non si voglia ritenere come tale quello delle Bikinirama, in effetti il mio primo album, ma di questo forse vi parlerò in altro momento. Nei fatti avrei potuto tatuarmi il codice a barre del mio primo libro, e anche dei settantasette che gli sono seguiti, ma ormai quell’idea era tramontata per sempre, inutile star qui a pensarci ora che ho cinquant’anni.

Nei fatti i Black Flag, e soprattutto il loro leader Henry Rollins, sono sempre stati degli idoli, per me, come tutta la scena hardcore americana. Non ho però mai avuto modo di vederli dal vivo, perché all’epoca vivevo in una provincia che era il buco del culo dell’impero e perché con buona probabilità quando mai fossero arrivati in Italia ero troppo piccolo per andarli a sentire altrove.

Non ho mai rinunciato a seguire Henry Rollins per amore, ci tengo a dirlo per onestà intellettuale, anche se ho ciccato l’incontro con un caro amico di Henry Rollins, nonché mio idolo assoluto proprio quando ero in giro per gli States con Cristina Donà, per il viaggio sulle orme di Spingsteen che poi avrebbe dato vita al libro God Less America. Un ricordo, questo, allucinante a ripensarci ora. Perché eravamo a New York quando leggo che al World Trade Center c’è la presentazione di Requiem for a Dream di Hubert Selby Jr. In realtà è un libro vecchio di qualche anno, in quel 2000 quando i fatti accadono, ma il fatto che il regista Darren Aronofsky ci abbia fatto un film lo ha riportato alle luci della ribalta. Dico a Cristina che mi piacerebbe andarci, ma siamo a pranzo da una sua amica italiana, una fotografa di nome Nicky Bucalo, facciamo tardi e non riusciamo a andarci. Ci diciamo, “Sarà per la prossima volta”, non sapendo che di lì a poco Selby sarebbe morto e che anche le due Torri non avrebbero fatto una bella fine. Selby Jr, con quel suo frequentare Lydia Lunch, Henry Rollins, Jim Carrol, la scena hardcore americana, mi aveva ispirato proprio quella collana che avrebbe spinto Zamboni a chiamarmi per propormi di pubblicare il suo libro.

Selby non mi ha mai chiamato, né credo potrà più farlo.

Zamboni non l’ho più sentito, e invece potrebbe ancora capitare.

Cristina Donà l’ho rivista recentemente, dopo anni che ci eravamo persi di vista, ma ci vogliamo ancora molto bene, proprio come allora.

A questo punto direi che la palla passa a Henry Rollins. Una chiamata, una mail, un messaggio su Whatsapp. Henry, non hai neanche bisogno di spiegarmi chi sei, fammi uno strillo di quelli che fai tu mangiandoti il microfono e ripartiamo da lì, visto mai che vado a farmi tatuare quelle quattro barre sull’avambraccio sinistro?