Odio la parola storytelling, le preferisco decisamente narrazione

Ognuno ha le sue tecniche narrative, io imbastisco un racconto autobiografico a furia di lunghissimi scritti che fanno continui riferimenti a un mio passato lontano, prevalentemente concentrato negli anni Novanta


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Al funerale di mia nonna Emma sono andato completamente vestito di giallo.

Giallo chiaro. Tipo limonata stinta.

Tipo il colore della nostra macchina di pochi anni prima, una Opel Olimpia che mio padre aveva comprato all’asta, sequestrata perché trovata piena di non so bene cosa, immagino o droga o banconote, e già che uno pensasse di passare inosservato a bordo di una Opel Olimpia giallo limonata stinta la dice lunga su cosa sia il genio.

Non saprei dire altro a riguardo, né l’anno preciso in cui è morta, ma a occhio dovrebbe essere stato intorno al 1987, quando ormai avevo quindi compiuto i diciotto anni, né in che stagione sia avvenuto ciò, anche se nella mia memoria dovrebbe essere accaduto in una stagione in cui si poteva ancora indossare vestiti molto leggeri, quindi presumibilmente in autunno o primavera. Mi vorrebbe poco, potrei chiederlo semplicemente ai miei, ma non l’ho mai fatto e non intendo farlo ora. Del resto non sono neanche mai andato al cimitero a trovare i mei morti, neanche il mio gemello Francesco, morto alla nascita, perché ho un rapporto complicato con quel luogo, e io stesso ho scritto un libro che dà precise indicazioni a riguardo, Seppellite il Mio Cuore sul Monte Conero.

Non saprei quindi dirvi se la faccenda del vestito giallo sia vera. Se, cioè, sia stato un tocco di eccentricità fatto da chi ancora eccentrico non era, se più che altro un tocco di sciatteria, quella sì, perché per anni sono vissuto indossando quel che mi capitava sotto le mani, non che oggi passi troppo tempo prima di decidere cosa indossare, o se più che altro sia il frutto di una mia bislacca ricostruzione mnemonica. Non ho memoria. Affatto. Non ricordo quasi nulla del mio passato.

Quando tra la fine del 1987 ho iniziato a frequentare più assiduamente Marina, colei che poi sarebbe diventata la mia fidanzata e oggi è mia moglie, una frequentazione che era riconducibile, suppongo, a quello che un tempo si chiamava “corteggiamento”, abbiamo iniziato a parlarci reciprocamente delle nostre famiglie. Non perché questo rientrasse nell’idea di corteggiamento, immagino, più che altro perché io e Marina abbiamo sempre parlato tantissimo, allora come oggi. Lei, Marina, all’epoca aveva ancora tutti e quattro i nonni vivi, ho appreso, mentre io non ne avevo più neanche uno. Non che i miei genitori e i suoi genitori fossero tanto distanti di età, li separava circa solo una decina d’anni, più o meno, il fatto è che i suoi genitori erano figli unici di nonni che li avevano fatti da molto giovani, nel mio caso i miei erano ultimi figli di genitori che, nel caso di mio padre, erano tornati a avere un figlio dopo venti anni dal primogenito, nel caso di mia madre, avevano avuto lei dopo altri sei figli, quasi tutte femmine, lasciando poi a mia zia Giuliana il compito di portare a otto il numero complessivo di figli. Per intendersi i miei nonni erano nati tutti nell’Ottocento, i suoi intorno agli anni Venti.

Ma a parte questo, cioè a parte che i miei nonni erano nati nell’Ottocento e che erano ora tutti morti, non sapevo dire molto altro a riguardo. Sapevo che mio nonno Italo, il padre di mia madre, era morto prima che io nascessi, ovviamente, ma non ricordavo quando erano morti gli altri tre. Sapevo che era successo nell’arco di poco tempo, credo un paio di anni, ma poco altro. Ho poi appreso, fossi uno che presta attenzione alla psicologia direi anche con un certo allarme, che mia nonna Emma, l’ultima a essersene andata, era morta solo pochi mesi prima, appunto nel 1987, ma il fatto che io non lo ricordassi è sempre stato vissuto da me e Marina come una cosa normale, io sono sempre stato quello senza memoria.

Chiaramente avevo dei ricordi relativi a ciascuno dei miei nonni, atti immagino a cristallizzarli nella mia memoria per come li avevo vissuti io. Quindi mia nonna Fiorina, la mamma di mia mamma, era piuttosto dura di carattere, lei che aveva cresciuto da sola otto figli mentre mio nonno era per mare, lì con la sua cipolla di capelli in testa, restia a esternare sentimenti anche in età avanzata. Mio nonno Mario era quello burbero, di poche parole, quello senza pollice, e questa storia l’ho già raccontata anche troppe volte, lui ateo che aveva distertato anche il matrimonio dei miei, non entrando in chiesa, quello che ogni volta che capitavo da loro, in via Torresi, in quello che oggi è il quartiere multietnico di Ancona, non mancava di farmi trovare il ciambellone del fornaio infarcito di cioccolata. Quello che, insieme a mia nonna Emma, era sempre alla finestra, per guardare le macchine che passavano. Mia nonna Emma, invece, quella al cui funerale ero andato di giallo vestito, era quella allegra, sempre pronta a mettermi qualcosa da mangiare nel piatto, per lei che aveva vissuto due guerre, immagino, l’idea di avere qualcosa di mangiare ogni qual volta volesse era qualcosa di miracoloso, da ostentare. Diceva spesso, del resto, grassezza è mezza bellezza, e aveva fatto di questo motto un suo personale credo. Quando ormai si era ammalata, immagino pochi mesi prima del suo funerale, allettata in ospedale, non mancava di dimostrarsi piena di spirito, parlando della sua vicina di letto, almeno venti anni meno di lei, come di “quella signora anziana” e inondandomi di racconti, io che la andavo a trovare praticamente tutti i giorni, in cui parlava di mio padre come di Learchino, credendosi giovane mamma e confondendo me per un suo cugino giovane a cui, in effetti, tutti dicevano assomigliassi parecchio. Ho sì questi ricordi ben chiari in mente, con lei che mi diceva che aveva portato Learchì su al Duomo a prendere aria buona, come ho i ricordi di lei che corre intorno al tavolo dietro mio padre, i primi capelli grigi in testa, con un po’ di tintura per capelli nella coppa della mano, perché vedere lui incanutito, lei che chiaramente aveva tutti i capelli tinti e in ordine in testa, le faceva brutto. Ma per il resto non ricordo nulla, neanche quando era morta.

Quando pochi anni dopo ho cominciato a scrivere, parliamo della metà degli anni Novanta, ho pensato che fosse proprio un mio modo di metterci una pezza. Siccome tendo a dimenticare le cose, anche radicalmente, ne avrei scritto, così da conservarne traccia. Non che la mia vita fosse particolarmente meritevole di essere ricordata, pensavo, ma era la mia vita, cazzo, se ne avessi perso completamente traccia cosa mai avrei potuto raccontare di me in seguito?

Questa faccenda dell’assenza di memoria, a dirla tutta, non è sempre stata vissuta da Marina con la stessa rassegnata consapevolezza che, suppongo, la alberga oggi. Anzi, i primi giorni della nostra storia d’amore sono stati funestati da questo mio non ricordarmi le cose, confuso costantemente con mancanza di attenzioni. Il fatto che non mi ricordassi come era vestita il giorno prima, per dire, è stata oggetto della nostra prima lite, dopo pochi giorni che stavamo insieme. A nulla è valso farle notare che neanche sapevo, chiudendomi gli occhi, come io fossi vestito in quel momento. Così come il mio non ricordarmi cosa avevamo fatto in una determinata data, lei che anche oggi è capace di dirmi cosa ho fatto dieci, quindici giorni fa, andando addirittura a dirmi come eravamo vestiti, forse abusando del mio non ricordarmi nulla e dargliele tutte per buone.

Io sono sempre stato quello senza memoria. E da un certo punto quello che scriveva per provare a crearsene una scritta, di memoria.

Nei fatti ho cominciato a scrivere racconti di fantasia, che nulla avevano a che fare con me e con la mia vita vissuta, ma una volta che sono passato ai romanzi, beh, lì ho attinto a mie vicende personali in maniera metodica, certo applicando variazioni sul tema. La scrittura non ha però risolto questo mio problema di memoria, problema che per altro ho sempre avuto, anche per quel che riguarda il ricordare date e nomi, io che poi sono finito a studiare proprio Storia all’università.

Certo pensare che quel che scrivo sia una fedele riproposizione autobiografica è sbagliato in sé, perché non ci sono ragioni concrete per le quali io sia tenuto e anche autorizzato a raccontare i fatti miei in contesti che coi fatti miei in teoria avrebbero poco a che fare. Diciamo che tutto quello che scrivo conserva tracce consistenti della mia memoria, ma la narrazione è la narrazione, ci mancherebbe pure che io debba essere fedele passo passo a quel che ho vissuto mentre vi parlo di musica.

Oggi qualcuno parlerebbe di storytelling, e se lo facesse, qui il vero punto di partenza di questo mio scritto, si beccherebbe una mia testata secca sul setto nasale. Per dirla quindi con Mario Brega, gli ho rotto le mucose, il sangue a ettolitri.

Odio la parola storytelling, le preferisco decisamente narrazione.

Proprio in queste ore ho letto una bella intervista a Federico Buffa, uscita tempo fa, Buffa, colui che più di ogni altro negli ultimi tempi ha fatto della narrazione in televisione, e a teatro, in cui sostiene esattamente la mia stessa idea. Perché ricorrere a una brutta parola inglese quando ce n’è una assai più bella in italiano? Nulla a che vedere col sovranismo, intendiamoci, è più che altro pragmatismo.

Ma non è certo uno scritto contro la parola storytelling, questo. Quello che, tra le tante cose interessanti dette da Buffa nella sua intervista, più mi ha colpito, è questo suo riferimento alla narrazione come modalità per combattere l’assenza di memoria. Spesso, nel suo caso, ma anche nel mio, è latente, neanche troppo, una accusa di passatismo. Di nostalgia, anche. Succede, quando si decide di guardare con particolare attenzione al passato. A quello del mondo dello sport, nel suo caso, al mio personale, che però non è esattamente il mio personale, come ho spiegato poco fa, per quel che riguarda me. A esplicita domanda riguardo al passatismo presunto, posta dall’intervistatore Angelo Carotenuto, di Repubblica, Buffa risponde “Sono abbastanza abile nell’anticipare l’obiezione. È un privilegio raccontare storie del passato anziché l’attualità. Ti salva. Non ho nessun problema a ammettere che questo non è più il mio mondo,” proseguendo poi riguardo una disaffezione verso i social media, fatto che evidentemente non condivido, ma chiosando con parole che mi vorrei tatuare sul braccio, non fossero in antitesi con quanto affermano, “Ammetto di essere un anziano”.

Ma la parte che più mi ha colpito di questa intervista è quella subito successiva. Carotenuto chiede a Buffa cosa sia la nostalgia, e Buffa, da par suo, risponde: “È la memoria con un altro nome. Ho una devozione forte verso il concetto di memoria. Ho perso mia madre per l’Alzheimer. La perdita di memoria genera la perdita di identità.”

Non credo di soffrire di Alzheimer, perché in caso sarei un anomalo caso di malattia arrivata in adolescenza e proseguita con tutta calma nel corso di oltre quarant’anni. Credo semmai di avere qualche problema serio con la memoria, roba di kappa e di RAM. E credo di avere anche una certa tendenza a selezionare cosa ricordare e cosa lasciare per strada, zavorra. Ripeto, fossi tra quanti ripongono una qualche fiducia nelle così dette scienze umane, potrei anche parlare di subconscio amorevole, di rimozione, o altre amenità del genere, ma fatico a riporre fiducia nella scienza in generale, anche nella medicina, la psicologia è davvero troppo per me. Non ricordo, è un fatto. Non per questo mi nego di scrivere prevalentemente del passato, recentemente concentrandomi in maniera quasi ossessiva del mio passato, complice il mio aver compiuto cinquant’anni, una cifra importante, tonda. Sono del resto un nostalgico, è noto. Guardo a un passato importante che non trova legittimi riscontri nel presente, e stavolta ovviamente non sto parlando di me, ma della musica, che è quasi sempre l’argomento di cui parlo per mestiere, ma volendo anche della politica e della letteratura, mia prima passione. Figlio dell’oggi, scrivo ormai quasi solo in rete, per quel che riguarda la quotidianità, pur privilegiando poi la forma libro, rigorosamente cartacea, come i settantotto titoli pubblicati possono dimostrare, guardo costantemente allo ieri, e all’altroieri. Quasi fossi un luddista, e ripeto essere luddisti in rete, converrete con me, fa davvero ridere anche solo a dirlo, parlo di apocalissi, di futuri jenaplinskinniani in cui non ci sarà più luce e toccherà ricorrere all’analogico laddove oggi è tutto digitale, invoco un ritorno al vinile che ben so non avverrà mai, non perché ami il fruscio della puntina o altre cazzate del genere, ma proprio perché l’oggi non è per me, mi fa cagare, non mi ci riconosco affatto. Ma a differenza di Buffa, e per intendersi so bene che star qui a innalzare paragoni con lui è ridicolo, perché Buffa è Buffa, primo, perché starebbe semmai a terzi farne, e non mi sembra ciò sia avvenuto, secondo, perché in fondo, come lo stesso Buffa dichiara chiaramente, anche prima che si cominciasse a straparlare di storytelling le narrazioni ci sono sempre state, le storie ci sono sempre state, prima semplicemente le chiamavano diversamente, e a distinguere i narratori c’erano gli stili, più che le storie raccontate, non è delle storie di vecchi cantanti che mi occupo prevalentemente. Non più, almeno. Il fatto è che, da biografo di cantanti di lungo cabotaggio, diciamolo, da principale biografo di cantanti in Italia, i numeri in questo caso qualcosa dicono, e oltre un milione di copie vendute, oltre che un numero piuttosto cospicuo di titoli e di collaborazioni importanti son lì a futura memoria, quando Buffa è cominciato a ascendere, legittimamente, alla luce dei riflettori ho iniziato a fare qualche ragionamento. Poco interessato per mia natura alle date e all’aneddottica, spesso abusata, mi sono quasi sempre lasciato andare a voli pindarici, dato alla fenomenologia un peso assai più rilevante di quello dato al biografismo canonico, all’anglosassone. Per dire, da primo biografo al mondo di Lady Gaga, anno del Signore 2012, ho dedicato credo più spazio all’utilizzo iconografico che Lady Gaga ha fatto del suo culo nei videoclip di quanta non ne abbia dedicato alla sua famiglia di origine, al contesto in cui è cresciuta, alle scuole che ha frequentato. Non perché io abbia una particolare predilezione per i culi, intendiamoci, ma perché ritenevo e ritengo che il culo di Lady Gaga abbia per la carriera di Lady Gaga un peso specifico assai alto, iconografico. Credo, anche se non sono il più titolato a dirlo, che il vero motivo per cui le mie biografie in qualche modo hanno funzionato più di altre, motivo per cui per una decina d’anni ne ho sostanzialmente pubblicate per tutti i principali editori italiani, finendo per essere scelto da artisti di grande rilievo, un nome su tutti, Vasco Rossi, come suo biografo ufficiale, stia proprio in quel mio concentrarmi su aspetti fenomenologici, con tratti più vicini all’antropologia, ai critical studies che al biografismo tout court, anche perché in questi tempi di iperconnessione capita spesso che chi legge questo tipo di opere sia a conoscenza di tutti gli aspetti della vita del proprio artista di riferimento, ancor più dell’artista stesso, non tenuto a ricordare aspetti che a ragione ritiene marginali, col risultato che una biografia che sia solo raccolta di fatti risulterebbe superata già alla nascita, almeno agli occhi di un pubblico così attento.

Per questo, dovendo o volendo utilizzare una storia emblematica da cui partire per esternare un pensiero relativo all’oggi, una storia del passato, ho optato per scegliere la mia personale, o quantomeno quella che ai vostri occhi deve apparire come la mia storia personale, poco importa se vera, verosimile o totalmente inventata. Lo faccio abitualmente anche nei Workshop che tengo in giro per l’Italia, il cui tema è sempre quello, seppur raccontato con parole diverse nei titoli: come diventare una popstar. Parto da come, nel corso degli ultimi cinque anni, ho lavorato su di me, utilizzando esattamente gli stessi codici e gli stessi canoni con cui, in genere, le popstar lavorano sulle proprie carriere. Non perché io sia una popstar, non fatemi star qui a invitarvi a leggere meno superficialmente quanto ho scritto, ho stima di chi è arrivato fino a questo punto e suppongo abbia capito perfettamente di cosa sto parlando, ma perché non essendo appunto io una popstar, facendo anzi un lavoro che di suo non prevederebbe neanche l’avere una faccia, una immagine, mi è più semplice descrivere passo passo come si può procedere per iconicizzare chiunque, anche un cinquantenne scrittore che di colpo si è trovato a vestire i panni del critico musicale più cattivo d’Italia. Confesso che parte di questo ragionamento l’ho mutuato da Baricco, uno che faceva quello che fa Buffa, e che faccio anche io, prima di me e di Buffa. Ho cioè lavorato contemporaneamente sia sullo stile che sui contenuti, mettendo me al centro della scena, Buffa pure lo fa, scegliendo le parole che sceglie, mettendosi in maniera così british al centro dello schermo, facendo le citazioni che fa, lui che infarcisce di musica i suoi racconti sullo sport, io che infarcisco di calcio i miei racconti di musica, lui che punta sull’eleganza, io sulla violenza, lui concentrato sull’esterno, io sull’interno, non lasciatevi ingannare da quel suo parlare di vecchi sportivi, anche Buffa racconta Buffa, oltre che Buffa racconta. Ho cioè costruito una iconografia mentre raccontavo l’iconografia di qualcun altro, nel mio caso specifico ho imbastito a furia di lunghissimi scritti che facevano continui riferimenti a un mio passato lontano, prevalentemente concentrato negli anni Novanta, un racconto autobiografico ben sapendo che non era poi così autobiografico come lo davo da intendere, e ben sapendo che non era certo la fedeltà ai fatti il centro del discorso, quanto l’andare a indicare costantemente un percorso che avrebbe portato a un risultato finale, lo storytelling, appunto.

Forma che si fa sostanza, ancora una volta, memoria che si fa identità, e che, in assenza di reale memoria, se ne va a cercare una nella fantasia, o più semplicemente nell’arte oratoria, nella retorica, nelle parole.