Moderate Tempeste è il nuovo EP di Giorgia Del Mese: un lavoro autarchico, d’autore e al tempo stesso eversivo

Cinque canzoni che sono altrettante ferite inferte con un rasoio tagliente, e sul quale la cantautrice che ce le ha inferte ha buttato alcool e benzina, per disinfettarci e farci sentire vivi


INTERAZIONI: 397

Ho i capelli ricci. Mia moglie ha i capelli ricci. I nostri quattro figli hanno i capelli ricci. O almeno, tre su quattro li hanno ancora ricci, dal momento che la più grande a furia di farsi le piastre li ha ormai lisci.

L’altra sera, mentre guardava la disfatta della sua squadra, la Juventus, lo so, ognuno ha la sua croce, ho un figlio juventino, mi ha detto che il suo calciatore preferito è Cuadrado, oltre che Salah, e sono i suoi calciatori preferiti non solo per come giocano, è piccolo ma credo ne capisca già abbastanza, ma perché sono ricci come lui. Gli ho allora fatto vedere la foto di un altro calciatore colombiano, come Cuadrado, che non gioca più da tempo, Valderrama. Non so se lo ricordate, ma aveva una cofana di capelli ricci e biondi enorme, tipo Napo Orso Capo, e qui vado ancora più indietro nel tempo. Ovviamente, mi ha detto, Valderrama da oggi è uno dei suoi calciatori preferiti di sempre. Poi mi ha fatto una lista di calciatori ricci, me ne ricordassi uno li citerei, tutti suoi preferiti.

Non so se questo aneddoto vada iscritto più tra quanti riguardano una definizione di diversità o tra quanti si occupano del concetto di appartenenza, nei fatti mio figlio Francesco, otto anni, si riconosce come diverso, esteticamente, da buona parte dei suoi compagni, e ha adottato questa sua strada per elaborare la cosa. Del resto è un gemello, sin da quando stava nel ventre materno ha capito che nella vita si sarebbe dovuto adattare in maniera differente a tutto e questo, credo e spero, ha fatto di lui un perfetto problem solving, almeno riguardo se stesso.

Faccio un grande salto indietro nel tempo. Quando a essere uno dei pochi ricci, anzi, il solo riccio nella mia classe ero io. Eravamo nella prima metà degli anni Ottanta, per una casualità infausta mi trovavo a frequentare il primo anno di Ragioneria, ramo Informatica. Non ho mai scelto quella scuola, che in qualche modo faceva parte del mio futuro, alle medie, in quanto destinato a ricoprire un lavoro amministrativo, immagino, sulle orme di mio padre che da bigliettaio della locale azienda di trasporti era entrato da qualche anno in ufficio. Come una sorta di predestinazione. Non azzeccata, per altro, visto che alla fine dell’anno, pur essendo uno dei cinque promossi in una classe piuttosto numerosa, optai per ricominciare da capo al classico, scuola che del resto mi era stata reiteratamente indicata come la mia strada dai miei stessi professori per tutto l’anno (“Che ci fai tu qui?”, questo il tormentone). Comunque in quel primo anno di superiori mi trovavo lì, a ragioneria. Ero il solo ragazzino riccio di tutta la classe, e fin qui tutto regolare, e soffrivo in maniera devastante di acne giovanile. Per certi versi ne soffro anche oggi, anche se ovviamente molto di meno, il che consegna alla parola “giovanile” un significato molto contemporaneo, visto che ho cinquant’anni, ma non è dell’oggi che voglio parlarvi, o almeno non ancora. Soffrivo di acne, e ne soffrivo molto. Avevo una pelle di merda, diciamo le cose come stanno, e probabilmente la mia alimentazione, sono sempre stato un grande appassionato di dolci, non mi aiutava. Ma di base avevo una pelle di merda. I miei mi avevano mandato già da diversi dermatologi, anche da un paio di luminari della mia città, ma a parte fornirmi creme grassissime fatte direttamente in farmacie, creme che non servivano sostanzialmente a un cazzo, la mia pelle continuava a essere di merda. Ogni tanto mi si creava una sorta di bubbone, manco fossi Abraham Murray, l’attore che ha interpretato Salieri nell’Amadeus di Milos Forman. Per questo, non ricordo spinti da chi, mi ritrovai a finire per essere un paziente della divisione universitaria di dermatologia dell’Ospedale Umberto I di Ancona. Per chi non fose della zona, l’Umberto I ora non c’è più, sostituito dal gigantesco Ospedale Regionale delle Marche. Ma all’epoca, proprio nel centro di Ancona, sorgeva questo ospedale in una zona molto bella, poi ipoteticamente destinata a diventare un megaresidence per gente ricca, ma ancora lì, tutto un cantiere. Dermatologia si trovava in una palazzina, l’Ospedale si sviluppava su una collinetta, in diverse palazzine isolate, proprio in cima alla struttura, vicino alla Camera Mortuaria. Vedete voi in questo dettaglio la metafora che più ritenete pertinente. Una volta alla settimana, di mattina, uscivo prima da scuola e andavo  su su, fino al reparto di dermatologia dell’Umberto I, dove una equipe di studenti mi prelevava una certa quantità di sangue, per poi fornirmi un farmaco che era in sperimentazione. Anni dopo, quando ormai ero a Milano, non ricordo se Report o che altro programma di inchiesta tirò fuori la notizia che quel farmaco era poi stato ritirato dal mercato, perché dopo essere stato sperimentato su di me e su altre cavie, diciamo le cose col loro nome, era stato immesso sul mercato, perché nocivo. Dicevano, lì in televisione, che avrebbe potuto indurre tutta una serie di conseguenze, tra le quali la sterilità, per questo mia madre, che segue quel tipo di programmi, mi aveva chiamato allarmata. Oltre che prelevarmi sangue, per monitorare il mio stato di salute, e fornirmi il farmaco sperimentale, i giovani studenti di dermatologia avevano preso questo vizio, che non credo sia in realtà ascrivibile alla categoria dei vizi, di farmi esplodere i bubboni di cui sopra. Ovviamente la parola esplodere non è corretta, lo so, esattamente come la parola vizio. In pratica succedeva questo, arrivavo al reparto con la faccia malconcia, come spesso capitava allora. Mi prelevavano le solite fialette di sangue, controllavano lo stato della mia cute e poi, se vedevano che avevo un bubbone, e anche la parola bubbone non è corretta, perché si tratta di cisti neanche troppo grandi, mi infilavano un ago in loco e iniettavano non so cosa finché la mia pelle esplodeva, lasciando uscire pus e sangue. So che quello che ho appena scritto è schifoso, fa schifo anche a me ricordarlo. E so anche che è poco gradevole descrivere un proprio momento difficile, ma non sono certo qui per creare un santino di me stesso. Sto provando a fare un altro tipo di ragionamento, che non può che passare da un momento di merda della mia esistenza. Ci sono io che ho un giovane studente universitario, laureato in medicina, specializzando in dermatologia, che infila un piccolo ago, tipo quelli da tossico, sulla mia pelle, sotto un brufolo più grande degli altri, e iniettando non so cosa mi fa scoppiare la pelle. Come potete capire, avevo quattordici anni, non è che stessi per altro vivendo quella fase della vita protesa all’ottimismo e alla solarità, leggi al nome “adolescenza”, capitava che me ne tornassi a casa non proprio di splendido umore. Certo, avevo la musica che mi teneva compagnia, il calcio, gli amici, ma nell’insieme mi sentivo un pochino diverso dal resto dei miei coetanei, non c’erano mica altri miei compagni di classe, da quelle parti, a dermatologia, e mi giravano anche un po’ i coglioni di essere finito a fare la cavia per poter avere la pelle come quella degli altri.

All’epoca la mia famiglia si era appena trasferita nel nostro quartiere di appartenenza, il centro storico, dopo che per qualche anno, vi ho già raccontato questa storia, a causa del sisma del 1972 che aveva distrutto la nostra casa, eravamo finiti in una zona residenziale, sempre in centro, ma nella parte ricca. Io dormivo con mio fratello maggiore Marco, come del resto ho sempre fatto finché non si è sposato, una decina di anni dopo. Anche lui credo sia stato riccio, in gioventù, ma la moda di stirarsi i capelli, cioè di farsi con una eccessiva frequenza la piastra, alla moda dei cantanti della west coast, sua grandissima passione, lo aveva portato a un principio di calvizie piuttosto aggressiva. Dico questo perché proprio negli stessi anni in cui io ricorrevo al farmaco sperimentale per tornare a avere una pelle non dico bella, ma presentabile, lui ricorreva a certe fialette al rosmarino per rinforzare i capelli, col risultato che camera mia sembrava il laboratorio di un fornaio. So che non apprezzerà questa parte del racconto, ma avendo io messo in piazza che mi facevano saltare in aria i brufoli con una iniezione direi che al momento nessuno è in condizione di dirmi cosa posso o non posso scrivere.

Dormivo quindi in camera con mio fratello Marco, otto anni più di me, ancora con tutti i capelli in testa alle soglie dei sessanta, per la cronaca, fialette al rosmarino miracolose. Non gli è quindi sfuggito che il mio umore vacillasse tra il devastato e il nichilista. Nel mentre, proprio a causa di quel farmaco sperimentale, oltre a perdere sangue dal naso con una certa frequenza, avevo cominciato a perdere il sonno, fatto che di lì in poi mi avrebbe accompagnato vita natural durante. Passavo quindi le notti a sentire la radio, ricordo che all’epoca mi dividevo tra i programmi musicali di Radio Rai 2, Planet Rock, Stereodrome o come si chiamavano allora, e la diretta del Maurizio Costanzo Show che andavano, credo, su RDS. Insomma, provavo a tenermi vivo. Lui, Marco, che per questioni legate a una forma innata di romanticismo aveva a sua volta cambiato scuola, mollando lo scientifico per inseguire i suoi sogni hemingwayiani di andare per mare, finendo quindi al Nautico, andando poi a lavorare prima in fabbrica, poi in un ufficio, e infine a fare l’editore, ma questo solo in seguito, era già un grandissimo divoratore di libri. Avevamo la camera piena di libri. Libri che io non leggevo. Credo che a quattordici anni, a parte Salgari, avessi letto solo i libri di scuola, e qualche libro per bambini tipo Tartarin di Tarascona o Pinocchio, in una versione ridotta. Lui, mio fratello, mi raccontò, con quel tipico gusto macabro che spesso è parte dei rapporti tra fratelli maschi, di aver letto un libro di uno scrittore americano dal nome stranissimo che aveva vissuto una situazione non troppo diversa dalla mia. Non so se il suo raccontarmelo sia stato un modo per farmi capire che, nella sfiga, non ero certo isolato al mondo, o per indicarmi un futuro da butterato, esattamente come lo scrittore dal nome strano. Sia come sia andai in biblioteca, che da quel momento diventò uno dei miei luoghi preferiti, anche essa posta nel centro storico della mia città, a pochi passi dalla casa che il terremoto ci aveva tolto per sempre, e presi un paio di suoi libri, era Charles Bukowski.

Dovessi dire che è stato Bukowski a spingermi a diventare un avido divoratore di libri, probabilmente, direi una esagerazione, perché nel mentre iniziai a leggere anche lo stesso Hemingway, i minimalisti americani, e soprattutto Hubert Selby Jr, che letteralmente mi stregò col suo Ultima Fermata Brooklin, ma nei fatti anche Bukowski è stato uno dei motivi per cui ho cominciato a leggere follemente, e a innamorarmi della letteratura più di quanto non mi fosse in precedenza capitato con la musica, sebbene il futuro avrebbe fatto sì che queste due mie passioni si sarebbero incrociate. Leggevo le storie di ordinaria follia di Hank e mi ritrovavo a vivere una marginalità che, in maniera ovviamente diversa dalla mia, che non ero alcolizzato e neanche erotomane, mi rappresentava. La nostra camera, mia e di mio fratello, ha cominciato a riempirsi anche di miei libri, oltre che dei miei dischi. E anche lì, in ambito musicale, il fatto di essere, di riconoscermi, come un disallineato dai gusti dei miei amici, quelli coi quali uscivo, passavo le giornate e anche le serate, mi spingeva a radicare in me l’idea di avere una mia personalità definita. Come se i miei ascolti fossero prima teorici e poi reali, fatto che poi mi ha spinto a studiare il lavoro dei critici musicali, dai classici ai contemporanei. Mentre imperavano gli anni Ottanta di Cecchetto, per capirsi, io mi perdevo nella new wave e l’hardcore, andando a recuperare il punk, ma siccome non mi ritenevo parte neanche di quella scena lì, che vedevo eccessivamente autoghettizzante, palesavo a tutti di essere anche un fine conoscitore dell’opera di Claudio Baglioni, così, per mettere a disagio i miei interlocutori. Da noi in Ancona, all’epoca, gli alternativi avevano un paio di punti di ritrovo. Sotto la Galleria Dorica, dove si trovavano metallari e dark, e in piazza Cavour, dove si trovavano i punk. Io frequentavo un po’ entrambi, pur essendo appena più giovane della maggior parte di quei rockettari, ma sempre da ospite, forse neanche troppo desiderato. Non vestivo di pelle, di nero o con quelle magliette bellissime con mostri e teschi, ma avevo i capelli che cominciavano a crescere, fatto che spingeva loro a vedermi come un estraneo e i miei compagni di scuola e amici come uno strambo. Tesi che per altro ultimamente mi è capitata di vedermi affibbiare anche da un giornale online, che parlando di me mi ha descritto come “un critico musicale eterodosso, decisamente eccentrico”. In realtà ho sempre pensato, e tutt’ora penso, che non ci si debba porre paletti, e che sia possibile partire da un racconto di Bukowski in cui racconta come da giovane gli facessero esplodere i bubboni che aveva nella faccia per finire a parlare di musica, si può partire da tuo figlio che tifa un calciatore a partire da una pettinatura comune per presentare un EP appena arrivato sul mercato. Un EP che con la diversità e come la diversità sia un valore e come la diversità sia una leva con la quale sollevare il mondo ha più che qualcosa a che fare. Si intitola Moderate Tempeste, lavoro di Giorgia Del Mese, qui alla suo quarto lavoro di studio. Se dico, a ragione, che Moderate Tempeste è un lavoro che ha a che fare con la diversità è perché Giorgia Del Mese, cantautrice di grande talento, chiaro a chiunque la ascolti, ha optato per una sua personale versione di hardcore intimista, qualcosa che a me, personalmente, e considerate che ho amato alla follia tutta l’opera degli Hüsker Dü, mi ricorda una sorta di mash-up tra il Grant Hart più lacerato e il Giovanni Lindo Ferretti di quando Giovanni Lindo Ferretti era ancora una voce dissonante in un panorama per il resto in buona parte omologato (un vero pallino, questo dei CCCP per la Del Mese, credo di poter affermare senza correre il rischio di essere smentito, visti anche i suoi album precedenti). Un lavoro autarchico, Moderate Tempeste, con Andrea Franchi ormai come d’abitudine al fianco di Giorgia Del Mese, un lavoro autarchico, d’autore e al tempo stesso eversivo come solo chi conosce per esperienza personale i punti deboli di questa armatura solo in apparenza impenetrabile che ci siamo costruiti per rimanere vivi in mezzo alla tempesta. Un lavoro epico, come può essere epico un viaggiatore che parte in solitaria per scalare una montagna o per cercare l’oro nel Klondike, essenziale come può e deve essere essenziale la lingua di chi prova a comunicarci la sola possibilità che abbiamo di salvarci nel bel mezzo di un naufragio. Cinque canzoni, tante ne contiene questo EP, che sono altrettante ferite inferte con un rasoio tagliente, e sul quale la stessa Giorgia Del Mese che ce le ha inferte ha buttato alcool e benzina, per disinfettarci e farci sentire vivi. Non un album indie, quindi, perché niente è più lontano da una idea rassicurante di Pop di questi brani. Non un album trap, Dio ce ne scampi. Neanche un album rassicurantemente femminile, se per femminile intendiamo qualcosa da incorniciare con fiocchetti rosa, morbido e accogliente. Una siringa infilata da una mano esperta, pronta a liberarci la pelle. Un calciatore riccio che si muove sul campo e che ci fa capire che in fondo non siamo poi così soli.