Riprendo una domanda di Bob Dylan per lanciare la mia sfida ai cantanti italiani: voi siete artisti o artigiani?

Con questa mia provocazione mi auspico di dar vita a un duello come quello che ebbero Carmelo Bene e Vittorio Gassman a teatro e non come quei dissing di basso livello dei rapper italiani


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Con la parola dissing si intende, per chi segue il rap, uno scambio di convenevoli tra due o più artisti. Una sorta di rissa verbale, in cui vince chi mette a tacere l’avversario. Quasi sempre, il rap nasce anche con l’intento da parte degli MC, così si facevano chiamare inizialmente i rapper, di dimostrare il semplice fatto di essere i migliori, anche e soprattutto a discapito dei colleghi, quasi sempre, quindi, il tema dei dissing è qualcosa che parte dal pubblico e finisce nel privato, spesso mettendo in pratica lo sfottò, a volte anche l’insulto vero e proprio, pesante. I carnieri dei rapper ne sono pieni, alcuni sono diventati addirittura leggendari. In alcuni casi, non parlo dell’Italia, da un dissing è poi nato un vero e proprio scontro, con morti lasciati a terra. Non credo sia necessario raccontare la storia di 2 Pac e Notorious BIG, la conoscono anche i sassi. Da noi ci si limita a insultarsi, in genere, e spesso chi insulta di più è anche quello che ha più bisogno del dissing per farsi notare, in assenza di hit o di un seguito reale.

Visto lo stile con cui scrive, non esattamente canonico, più volte mi è capitato di sentire parlare di me e dei cantanti come protagonisti di un dissing. Diversi rapper mi hanno anche detto di invidiare la mia capacità di dissare, che brutto verbo, gli altri, come se quello fosse in effetti il mio intento.

Al punto che, un paio di anni fa, quando ho raccolto parte dei miei scritti in un libro dal titolo Manuale Di Sopravvivenza Alla Musica Demmerda, titolo direi abbastanza esplicito, ho deciso di riportare in quarta di copertina non i complimenti di questo o quel personaggio famoso, né la critica lusinghiera di qualche mia precedente opera, ma una lunga sequela di insulti ricevuti sui social da parte di artisti anche piuttosto famosi. Un modo scherzoso di giocare proprio su questo aspetto, il dissing.

Mi è spesso capitato di avere scambi accesi anche coi cosiddetti colleghi, in prevalenza giornalisti musicali, più che critici, fatto di per sé anomalo, perché chi scrive tende a avere una sorta di atteggiamento da confraternita universitaria, almeno da noi. Fatico a riconoscermi in chi intende il mio mestiere in maniera differente dalla mia, e tendo a dirlo pubblicamente, fatto che immagino non risulti simpatico.

Il fatto è che io ritengo fermamente che senza dialettica non si va da nessuna parte. Se, cioè, chi comunica, ma anche chi è tenuto a analizzare, non si pone liberamente nella condizione di dire anche cose contrarie al comune sentire, rischiando quindi in ordine di contrariare i lettori, mettere a disagio i cosiddetti colleghi, far imbufalire i discografici e più in generale gli addetti ai lavori, se, cioè, preferisce stare nel gregge invece che far sentire la propria voce, beh, allora ci ritroviamo in una sorta di regime totalitario, in cui si stilano veline.

Lungi da me il voler dar vita a paragoni altisonanti, provo solo a fare un esempio chiaro per tutti. Giorni fa mi è capitato di vedere sul tubo un paio di vecchi video. Li ha condivisi sui social Giorgio Cappozzo, autore tv e intellettuale che sui social non manca mai di dire e fare cose apprezzabili. I video in questioni riproponevano, Youtube santo subito, uno scontro acceso avvenuto a teatro tra Carmelo Bene e Vittorio Gassman. La sostanza dello scontro è inriassumibile qui, in poche righe. Anche perché raccontare i due giganti in questioni privandoli di voce è una sorta di crimine contro l’umanità. Nei fatti a essere al centro della tenzone, i due video mostrano due incontri pubblici avvenuti a distanza di una settimana l’uno dall’altro, è un’idea completamente diversa di teatro. Sì, lo scontro avviene a partire da una diversa idea, anche se poi, è normale sia così, scendono in campo anche risentimenti, rancori e anche una gigioneria che in entrambi i casi è sempre portata all’eccesso. Uno scontro dialettico, il loro, che non lesina colpi bassi, citazioni altissime, impietose messe alla berlina dell’avversario, a volte andando anche sul personale, oltre che sul pubblico. Uno scontro dialettico che, in quanto tale, cerca di portare costantemente il pubblico dalla parte di chi parla, come a dover sancire una presunta vittoria ai punti. Vittoria che ovviamente non avviene, perché presumibilmente manca il finale, o più semplicemente non è prevista una vera vittoria. Ma quando a un certo punto, dopo aver detto una immane puttanata sull’anacoluto, definito incautamente un settenario doppio zoppicante, Carmelo Bene, dopo averci spiegato perché la sua voce è orgogliosamente monotona, rivendicando il riuscire a tenerla costantemente nella fascia di tono, e dopo aver quindi giustificato l’utilizzo che stava facendo del microfono, fatto che evidentemente per chi fa teatro è da considerare una scorciatoia, se non una vera e propria onta, sfida Gassman a una tenzone sulle Ricordanze di Leopardi. Dicendo, proprio così, ti sfido, come si trattasse di un duello all’arma bianca. E quando Gassman, che evidentemente non amava tirarsi indietro, rilancia con Hölderlin, alzando quindi la posta sul tavolo, e presumibilmente facendo il punto partita, beh, in questo frangente a chiunque guardi non può essere sfuggito come, nel loro essere lì a difendere un proprio primato, di qualsiasi primato si tratti, Bene e Gassman hanno in realtà dato vita a un grande momento di cultura, di crescita, di teatro, appunto.

Ecco, guardando questi video, disponibili sul tubo, andateveli a cercare, mi è stato evidente come oggi come oggi tutto questo non sarebbe più possibile. Non solo e non tanto per l’assenza di due giganti come i protagonisti in questione, quanto perché lo scontro sembra essersi spostato altrove, si tratti dei talk in tv, per una generazione, e quelli sui social per tutti gli altri. E anche perché sembrano mancare attori, intesi come persone che agiscono, non come persone che recitano, capaci di giocarsi la faccia sul piano realmente dialettico.

Vengo quindi alla musica, perché è di musica che mi occupo. Oggi come oggi la rete è piena di dissing, torniamo al punto di partenza. Forse meno che in passato, o semplicemente meno appassionanti, perché la moda dei duetti e dei featuring ha spinto molti a più miti consigli, ma pur sempre presenti. Solo che, come si è indicato chiaramente, sono scontri di facciata, basati sullo stile, privi di contenuti. Quello che manca, non solo nel rap, anzi, lasciamolo proprio perdere il rap attuale, quello che manca nella musica, è lo scontro dialettico atto a aprire dibattiti, a creare discussioni che portino a risultati. I cantanti non si esprimono su nulla. Men che meno sulle opere dei colleghi. Non parlo di critiche o lusinghe, ma di analisi che possano portare a qualcosa di concreto. Non c’è un Carmelo Bene della canzone che provochi un Vittorio Gassman della canzone, provi a metterlo in un angolo, a screditarlo al fine di accreditare una propria idea di canzone. Non c’è e forse in Italia non c’è mai stato, se non quando i cantautori, parlo degli anni Settanta, guardavano al pop e anche a certi cantautori non allineati a una comune appartenenza politica come si guarda alla merda, non serve fare nomi. Non ci sono opinioni in circolo. Esattamente come succede ai critici musicali e ai giornalisti musicali, nei fatti non chiamati a parlare di musica, se non a livello cronachistico ma spesso con indosso i panni dei critici. Mancano le prese di posizione, i dubbi, le domande poste in pubblico, le provocazioni, i tagli atti a creare ferite dalle quali potrebbero sgorgare risposte, come il sangue.

Tutto è omologato.

Avete mai sentito un BIG esprimere una propria presa di posizione rispetto all’opera di un collega. Una presa di posizione che non sia un cuoricino o un like messo sui social, intendo?

Avete forse letto di critiche violente da parte di wannabe, ma quasi mai argomentate, ma le analisi latitano. Gli scontri dialettici ancora di più.

Forse un peso ce l’ha la faccenda del “rosicone” che spesso viene usato come clava per chiunque provi a dissentire, fatto che ovviamente è veicolato quasi sempre dalle fazioni di fan, non dagli artisti, ma sappiamo tutti che di mera stronzata si tratta. Perché avere idee diverse nulla ha a che fare col rosicamento, per altro concetto innalzato argomento di discussione non si sa bene perché, visto che l’invidia dovrebbe essere avulsa da chi fa arte per fare arte, non certo per fare soldi o avere successo.

Ecco, siccome non sono né Carmelo Bene né Vittorio Gassman, su questo almeno saremo tutti d’accordo, ma sono uno che ci mette la faccia e dice sempre quel che pensa, vada come vada, lancio io una provocazione. Una provocazione rivolta a tutti gli artisti, senza eccezioni. Anche a quelli verso i quali ho più e più volte espresso in pubblico la mia stima, andatevi a cercare di chi sto parlando. Bob Dylan, non esattamente l’ultimo degli stronzi, ha detto in una intervista qualcosa che suona così: “Un artigiano vive del suo lavoro. Un bravo artigiano sa cosa vuole il cliente, lo prepara e glielo offre. Un artista no. Un artista vive nel suo mondo, che può diventare il mondo di tanti o di pochi, o rimanere solo suo. Io un tempo ero un artista, oggi sono un artigiano, e questo vale per tantissimi miei colleghi”, ho letto queste parole sempre sui social, riportate dallo scrittore Enrico Tordini. Bene, chiedo a tutti gli artisti italiani, voi di quale delle due categorie ritenete di fare parte? Siete artisti o siete artigiani che provano a dare al pubblico quello che il pubblico vuole? E in caso, lo fate consapevolmente o serviva una frase di Bob Dylan, mica per niente Premio Nobel per la letteratura, per sbattervi in faccia la dura verità?

Prendetela come una sfida a duello. Di quelli che un tempo si tenevano all’alba, sotto lo sguardo di due testimoni. Rispondetemi, se ne avete coraggio, o altrimenti venite da me che ci sfidiamo sulle Ricordanze di Leopardi, fa lo stesso.