D.O.C. è il nuovo album di Zucchero: una speranza, un raggio di sole in questa società sempre più superficiale

Un artista, che si è armato di curiosità tirando fuori una sua versione del 2019, un capolavoro musicale composto da 11 brani in cui è evidente una ricerca di salvezza dal quel marcio che domina il mondo


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Ormai quasi venti anni fa sono stato per la prima volta negli Stati Uniti. Era un viaggio strano, già in partenza, perché io e Cristina Donà dovevamo ripercorrere le tappe springsteeniane che da Freehold, New Jersey portavano fino alla California, per celebrare il ventennale dell’uscita di quel masterpiece di The River. Ovviamente, dovendo fare un coast to coast, in realtà un semi-coast to coast, perché dopo aver toccato Freehold, città natale del Boss e New York, sua città adottiva quando si è trattato di diventare appunto il Boss, passando poi per Atlantic City, Philadelphia, Cleveland, Detroit, Normal, Chicago, Omaha, in Nebraska, abbiamo optato per un più comodo aereo che ci ha portato a Los Angeles, per poi proseguire su su a Big Sur, Carmel e infine San Francisco. Un viaggio anomalo, oggi, perché per farci tutto questo tragitto siamo stati pagati da Gente Viaggi, rivista ormai scomparsa che all’epoca era capace di sostenere un mese lungo gli USA per due reporter. Anomalo perché io, fino a quel momento, non mi ero mai avvicinato a Springsteen, e perché Cristina non si era mai avvicinata al reportage. Anomalo perché uno scrittore e una cantante che attraversano gli States sembra più materiale da libro o da documentario che da articolo per giornale, infatti da lì nascerà God Les America, libro che è uscito qualche tempo dopo per la Piccola Biblioteca Oscar della Mondadori. In quel mese di girovagare per gli Stati Uniti, i più pignoli di voi lo avranno notato, c’erano alcune tappe decisamente poco springsteeniane, come Normal, Illinois, Big Sur e San Francisco. Tutte tappe, invece, piuttosto letterarie, e se io devo star qui a spiegarvi perché siano letterarie Big Sur e San Francisco, Houston, abbiamo un problema. Più facile, magari, che vi sfugga perché Normal sia una tappa letteraria, e perché io, ero io dei due quello che lavorava per Gente Viaggi e per la Mondadori, abbia deciso di infilarla a tutta forza nell’itinerario. A Normal, Illinois, viveva all’epoca un ancora giovane David Foster Wallace, giovane talento della letteratura americana tutta, alfiere del postmoderno.

Per me praticamente Dio. Avevo iniziato a fare reportage spinto dai suoi reportage che, in epoca pre-internet, perché è vero che negli anni Novanta già esisteva la rete, ma è anche vero che non era così pervasiva come oggi e, almeno io, non avevo neanche la connessione a casa, reportage che in epoca pre-internet, quindi, mi andavo procurando attraverso rare riviste che si trovavano in librerie specializzate. Mi ero innamorato di lui leggendo suoi racconti su Panta e su una antologia avant-pop uscita per Theoria, e da quel momento l’amore non è mai venuto meno, neanche quando, anni dopo, ha deciso di porre fine ai suoi giorni e alla mia voglia irrefrenabile di leggere qualcosa di nuovo di suo. Sia come sia un bel giorno ci troviamo a Normal, Illinois, con in mano la guida del telefono che indica il suo indirizzo di casa. L’idea, per questo siamo lì, nel bel mezzo di un caxxo di niente, di andare a suonargli alla porta, ben sapendo, ho divorato tutto quello che ha pubblicato, anche l’infinito Infinite Jest, ancora non tradotto in italiano, quanto sia ostico nei rapporti interpersonali. Sto lì, nella mia camera di albergo, che stringo la guida del telefono tra le mani, strappo la pagina, ormai sono passati quasi venti anni, penso sia entrato in prescrizione il reato, pronto a andare a conoscere il mio idolo, quando decido di non andare. Esatto, per passare da Normal abbiamo guidato ore e ore, e ore e ore torneremo a guidare per le tappe successive, ma alla fine da David Foster Wallace non ci andiamo. Perché conoscere i propri idoli, sempre che la parola idolo sia appropriata, non è mai conveniente. Si finisce sempre, mi ripetevo senza avere prove a supporto, per rimanere delusi, delusissimi. Come Mango in Oro, anche se nello specifico non ho mai ipotizzato che David Foster Wallace volesse venire a letto con me. Parlo di avere aspettative alte che rimangono deluse. Meglio, mi sono detto, non conoscerlo affatto, lasciandolo lì, nel mio immaginario.

Ho sempre applicato questa regola alla mia vita, avvantaggiato dal fatto che buona parte dei miei eroi non fossero più tra noi, o fossero davvero difficili da scovare. Ma a volte ho fatto delle eccezioni. Perché certe affinità, una volta scovate, penso non sia il caso di tenerle nascoste. Perché in fondo la curiosità di capire se artista e opera, a volte, coincidano, è più forte della paura di scoprire che no, non coincidono affatto. Perché poi nella vita mi sono trovato a fare un mestiere per cui, volente o nolente, con un po’ di gente che stimo, e che stimo parecchio, ho avuto a che fare.

Ci sono dei casi, quindi, di artisti che stimo che ho avuto modo di conoscere. E alcuni di questi casi sono stati sorprendenti, molto sorprendenti. Perché invece di incontrare lungo la strada una cocente delusione, ho scoperto che l’artista è pari all’opera, se non meglio. Sono nato nel 1969, quindi la mia giovane età è coincisa col momento d’oro della musica italiana, quella in cui sbocciavano artisti che avrebbero trovato non solo l’amore incondizionato di un pubblico vastissimo, ma anche una ispirazione talmente potente da rimanere per sempre nella storia della musica. Come è noto con uno di questi ci lavoro ormai da qualche anno, motivo per il quale mi guardo dallo scriverne. Un altro è Zucchero, artista che di suo non avrebbe certo bisogno di una presentazione.

Conoscere di persona Zucchero, fatto che risale a qualche anno fa, è stata per me un’esperienza illuminante, perché ho trovato un artista appassionato talmente tanto di musica da dimenticarsi per una lunga intervista, parlo della prima volta che ci siamo visti, ma anche di tutte le successive, per star lì a raccontarmi di come abbia scovato quel determinato suono, come si sia messo alla costante ricerca di chi sapesse usare un determinato strumento esattamente nel modo che aveva in testa, senza star lì a raccontarmi quelle solite quattro cose che durante i lanci di un album si ripetono a macchinetta. Il che non fa assolutamente di me un bravo giornalista, lo so, non sono affatto un giornalista, figuriamoci se posso mai essere bravo, ma più un appassionato di musica che parla con un suo simile, fottendosene delle regole. Ecco, questa dell’essere irregolare credo che sia la cifra che più mi ha colpito di Zucchero, questo non stare dentro determinati canoni, destini, immagini, in precedenza toccati a artisti quali Battisti, Modugno, Dalla. Seguire il suono, prima ancora delle canzoni, e quelle storie necessarie da raccontare. Spesso con ironia, non nel caso in questione, altrettanto spesso con malinconia, sempre con sincerità.

Un artista, Zucchero, che con gli anni è invecchiato, di questo abbiamo parlato stavolta, dopo aver sviscerato le modalità con le quali ha inseguito quel suono così al tempo stesso contemporaneo e terreno, organico ma manipolato, nuovo e antico, ma è invecchiato bene, come fanno i buoni vini, dentro botti fatte con legno altrettanto buono. Un artista, quindi, che non si nasconde dietro estetiche di facciata, argomento che per altro ricorre nelle tracce del suo nuovo lavoro, undici brani, non uno di più, perché i dischi dovrebbero poter stare nei due lati di un vinile, quindi probabilmente essere anche meno, parole sue.

Il fatto è che Zucchero è un artista. Un aspetto che neanche andrebbe sottolineato, non fosse che oggi si utilizza questo termine anche per il primo scappato di casa che finisce in vetta alla classifica grazie alla benevolenza, più o meno disinteressata, del tizio che gestisce le playlist di Spotify, e in quanto artista non solo ha già inseguito e raggiunto la sua ispirazione nel corso di una carriera che va avanti sempre a altissimi livelli da qualche decennio, ma continua indefessamente a inseguirla e raggiungerla anche ora che, volendo, potrebbe starsene a raccogliere i frutti del suo lavoro pregresso, fregandosene dell’oggi. Invece anche nell’oggi c’è Zucchero e ci sono le tracce di D.O.C., titolo che nasconde la volontà di presentare un lavoro all’altezza del proprio nome, volontà realizzata a piene mani. Perché nel momento in cui si è trattato di decidere se flirtare coi suoni del caxxo che girano oggi o rinchiudersi in una classicità di cui è titolare, Zucchero si è armato di curiosità e di tenacia e è andato a tirare fuori una sua versione del 2019, qualcosa che guarda in cielo ma con i piedi saldamente infilati in mezzo alla terra. Quindi c’è quella tecnologia che oggi sembra aver sostituito l’uomo, certo, grazie all’apporto portato da giovani artisti pescati in giro per il mondo, ma queste macchine hanno avuto il compito e il privilegio di rielaborare, di lavorare, suoni tirati fuori da grandi professionisti che hanno suonato musica con strumenti veri, musica organica. Ecco, questa è la formula magica di questo lavoro, diciamolo apertamente, che ha al suo interno alcuni brani destinati a rimanere in un futuro Best of del nostro, penso a Tempo al tempo, penso alla conclusiva La tempesta, delicatamente giocata sulla voce e sul piano, penso a La canzone che se ne va, penso a Testa o croce e Vittime del cool. Canzoni che affrontano l’oggi non solo per questo cercare e trovare una commistione di suoni, seppur con l’organico a vincere sul digitale, ma anche per le tematiche affrontate, con una ricerca dell’immenso, in parte dovuta all’anagrafe in parte al doversi confrontare con una quotidianità sempre più apocalittica e mesta. Zucchero appare meno carnascialesco, oggi, il sesso sembra essere meno presente nelle sue canzoni, per dire, ma è sicuramente sempre lì a far i conti con la vita, cantautore doc a volte confuso per altro, come se le sue canzoni non avessero già raccontato gli anni passati. Un cantautore, Zucchero, che indica uno spiraglio di luce in ogni canzone, come un raggio di sole che buca le nubi, magari mentre ancora il temporale, o la tempesta che dir si voglia, è in corso. Perché l’arte è anche questo, volontà di tenere lo sguardo alto anche quando provano a spingerci la testa sotto. Zucchero ha dalla sua la capacità di scrivere canzoni potenti, e anche la capacità di circondarsi di artisti, in primis i coproduttori Don Was e Max Marcolini, a seguire quelli che hanno suonato gli strumenti veri e quelli che li hanno rielaborati, portando quel tocco di contemporaneità a canzoni che ambiscono a esserci anche quando la contemporaneità sarà stata giustamente dimenticata, per chiudere quelli che hanno collaborato alla stesura di alcune canzoni, da Pasquale Panella a Francesco De Gregori, passando per Va de Sfroos, Eg White, Rag ‘N’ Bon, autore con lui di Freedom, primo singolo dell’album, e quella Frida Sundemo che duetta con lui nella ballata Cose che già sai. Un album, D.O.C., pensate voi, che presenta intro e code, come si faceva una volta, alla faccia di chi vede in app come Tik Tok, quindici secondi per fare esplodere un tormentone, il presente della discografia.

Ecco, se in questo preciso momento ci troviamo nel bel mezzo di una tempesta, e così sembra di poter affermare senza paura di essere smentiti, D.O.C. appare come quel raggio di sole che indica che lassù, da qualche parte, c’è una speranza, per dirla sempre con lui, ateo convinto, che magari non ci sarà il Dio della religione cristiana, ma capace che un qualche Dio ci sia. Rovesciando l’assunto del Patrick Bateman di Bret Easton Ellis, oggi come mai così attuale, mentre tutto intorno è sangue e distruzione, questa è una vita d’uscita.