Storie di cervelli in fuga: Stefano De Tito, ricercatore nel campo della biologia cellulare

“Da circa un anno sono al Francis Crick Institute di Londra, il Centro di Ricerca diretto dal Premio Nobel Paul Nurse, e recentemente é stato assegnato un secondo Premio Nobel al professor Peter Ratcliffe. La mia vita é cambiata radicalmente”


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I giovani, uomini e donne, che lasciano l’Italia sono i cervelli in fuga che emigrano, che lavorano all’estero nei centri di ricerca ed altrove, che ricoprono ruoli importanti in aziende private, che scalano posizioni professionalmente e in modo meritocratico, che guadagnano di conseguenza in modo adeguato alle loro capacità, che mettono su famiglia e hanno condizioni di vita migliori, che non vogliono più tornare.

Si tratta di un fenomeno sempre più in crescita. Ma al di là dei numeri, delle statistiche, conosciamo davvero le storie di questi giovani, i loro sentimenti, le loro soddisfazioni, il silenzio assordante della lontananza dai genitori, dagli amici, il costo economico sopportato dalla famiglia e da loro stessi, ma anche l’orgoglio dei genitori di vederli realizzati?

Forse avrete letto le storie di Antonino, Manuela, Michela: adesso leggerete anche quella di Stefano, e poi ne racconteremo tante altre. Vicende ricche di emozioni dove però nel contempo si percepiscono punte di amarezza, di scelte consapevoli ma spesso obbligate. Sono tante le sfumature di ciascuna storia e tutte a tinte forti. Far finta di preoccuparsi del problema senza la concreta attuazione di politiche e contesti accoglienti per non perdere o disperdere queste intelligenze, è cosa veramente disarmante…

Stefano De Tito, napoletano di 34 anni, ricercatore nel campo della biologia cellulare, lavora nel prestigioso Francis Crick Institute di Londra con due Premi Nobel: Paul Nurse, direttore del Centro di ricerca, e Peter Ratcliffe, direttore della ricerca clinica.

La mia ricerca consiste nello svelare i meccanismi molecolari che sottendono l’autofagia. In particolare – racconta Stefano – si tratta di un processo biologico che la cellula usa in condizioni di deprivazione da nutrienti. Da un punto di vista patologico, tale fenomeno é correlato a diverse malattie neurodegenerative ed alla progressione tumorale. Riuscire dunque a svelare i componenti chiave che regolano una così delicata risposta biologica, potrebbe portare in luce nuovi target per lo sviluppo di farmaci nelle patologie citate”.

Da dove sei partito con gli studi?

“Mi sono laureato in chimica e tecnologie farmaceutiche alla facoltà di Farmacia all’Università di Napoli, ricevendo una menzione accademica per il brillante percorso universitario. Da quel momento ho deciso di intraprendere la carriera della ricerca scientifica. Ho vinto due concorsi di dottorato: uno all’istituto IIT di Genova in scienze chimiche e biomateriali ed un altro nella medesima Facoltà di Napoli in cui mi sono laureato, in scienza del farmaco”.

Genova o Napoli dunque?

“Ho optato per Napoli, per una questione di affinità di studi e percorso scientifico. Durante il dottorato ho avuto la fortuna di lavorare con un professore che oltre ad essere un ottimo docente é anche un brillante ricercatore, ed è grazie a lui se sono riuscito ad alimentare la mia voglia di impegnarmi e di migliorarmi continuamente. È stato proprio lui che mi ha spinto a collaborare ad un progetto di ricerca al King’s College di Londra, nel quale sono stato per 8 mesi”.

Dopo Napoli, ti trasferisci a Londra, un passaggio significativo?

È stato un periodo della mia vita che ricordo come uno dei più belli in assoluto, sia da un punto di vista personale che lavorativo.Per la prima volta ho apprezzato cosa significa vivere in una città senza “sovrastrutture”, dove tutto funziona perfettamente non per chissà quale grande ingegno, ma semplicemente poiché ognuno svolge la mansione per la quale é preposto, nel rispetto del prossimo”.

Realtà a confronto?

“Professionalmente ho apprezzato dal primo giorno il “gap” che divide gran parte dei centri di ricerca italiani da quelli internazionali. La cosa che fa più rabbia è che la ragione non é da attribuirsi ad una maggiore preparazione o migliori capacità intellettive da parte dei ricercatori “non italiani”, ma ad un banale (ed a quanto pare impareggiabile) investimento in fondi per la ricerca, che si traduce in maggior personale qualificato e strumenti all’avanguardia, fattori che permettono di pubblicare su riviste ad altissimo impatto scientifico”.

Nonostante ciò.. ritorni in Italia?

Infatti. Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca, malgrado avessi avuto la possibilità di continuare a lavorare al King’s College, ed in parallelo di iniziare una collaborazione all’MRC (altro centro di ricerca inglese), ho deciso di rientrare in Italia, fermo nella mia idea di voler fare ricerca ed investire i miei sforzi per il mio Paese. È così che ho iniziato un post-dottorato al CNR di Napoli durante il quale ho vinto una borsa di ricerca triennale AIRC. In tale periodo ho intrapreso la linea di ricerca per la quale anche attualmente mi sento più affine, quella della biologia cellulare, ed ho avuto la possibilità di interfacciarmi per brevi periodi con laboratori internazionali. Nonostante l’esperienza positiva, al termine del contratto ho sentito la forte esigenza di spostarmi fuori dall’Italia per vari motivi: la difficoltà nel trovare fondi per la ricerca in Italia, così come la difficoltà nel riuscire a trovare posizioni permanenti che troppo spesso vengono assegnate a persone che erano “in coda da prima di te”. Quest’ultimo punto penso sia il problema maggiore, poiché la quantità di persone che hanno alle spalle 10 anni o più di ricerca ed ancora non hanno posizioni permanenti é eccessiva, ma rappresenta un forte deterrente per giovani ricercatori che dopo il primo post-dottorato vorrebbero affermare il proprio laboratorio”.

Da ciò si genera un meccanismo perverso?

“Esattamente. In virtù del quale molti brillanti potenziali ricercatori accettano posti di lavoro differenti, come tecnici di laboratorio, tecnologi od amministrativi, mansioni di tutto rispetto che rappresentano l’impalcatura di molti centri di ricerca, ma non quelle alle quali aspiravano. La conclusione é quella di avere un “veterano” che finalmente é riuscito ad ottenere “il posto fisso”, ed un potenziale giovane ricercatore frustrato che farà un lavoro al quale non aspirava togliendolo a qualcun altro che lo avrebbe fatto con maggior slancio”

Altrove non è così?

All’estero “le file alla posta” non esistono, se sei bravo vai avanti e scavalchi le persone meno meritevoli di te, punto. La competizione resta comunque notevole, ma si combatte alla pari e difficilmente si ripiega su altre posizioni di lavoro alle quali non si aspirava. Questo genera un sistema alquanto semplice ma tremendamente funzionante, in cui ogni singolo ingranaggio ruota alla perfezione perché viene collocato esattamente nel posto nel quale dovrebbe stare. Ed eccomi ad oggi, nuovamente a Londra”.

A Londra e fai ricerca in un centro di ricerca di eccellenza..

Da circa un anno sono al Francis Crick Institute, il Centro di Ricerca diretto dal premio Nobel Paul Nurse, e recentemente é stato assegnato un secondo premio Nobel al professor Peter Ratcliffe. La mia vita é cambiata radicalmente”.

In che modo?

“Ho un legame fortissimo con la mia famiglia ma mi sto abituando a vederla dal vivo ogni 3 o 4 mesi, grazie anche al supporto tecnologico degli smartphone che ci permettono di essere vicini virtualmente tramite le videochiamate. Da parte loro ho avuto ed ho un forte supporto per la scelta fatta, hanno vissuto con me le difficoltà attualmente presenti nel panorama lavorativo italiano. E sono convinto che continueranno a sostenermi nel mio percorso professionale. Gli amici che ero abituato a vedere nel weekend (e non solo), che per me rappresentano una famiglia “allargata”, mi sono vicini anche più di quanto mi aspettassi e già sono venuti a trovarmi più volte”.

E come vive un italiano a Londra il passaggio alla Brexit?

“Per quanto ci sia grande tumulto per la “Brexit”, Londra é una città che offre agli italiani molto più di quanto l’Italia stessa non faccia. Se inizi con uno stage non pagato di 6 mesi in Italia devi anche ringraziare per essere stato privilegiato nell’averti selezionato. Qui esiste rispetto per il lavoratore ineccepibile, e qualunque sia l’ambito lavorativo nel quale si investa, la possibilità di fare carriera e migliorarsi non viene mai preclusa di fronte ad impegno e dedizione. Per quello che riguarda me, professionalmente mi sento finalmente come quell’ingranaggio che sta ruotando come dovrebbe perché collocato al posto giusto”.

Rimanere a Londra o ritornare?

Non escludo l’idea di rimanere in maniera permanete qui (anzi attualmente é la più concreta), cosi come neanche quella di rientrare in Italia, sebbene ad una sola “conditio sine qua non“: rientrare in un ambiente lavorativo meritocratico…Ahimé, temo dunque che la mia permanenza “estera” sarà alquanto lunga”.