Living With Yourself su Netflix, un’occasione sprecata: la simpatia di Paul Rudd non basta (recensione)

Living With Yourself su Netflix si regge sulla (doppia) simpatia di Paul Rudd, ma la serie è un esperimento che funziona solo a metà

Living With Yourself su Netflix

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Immaginate di sottoporvi a un trattamento di bellezza allo scopo di risultare più attraenti agli occhi del partner e dei colleghi. Invece, quando tornate a casa, scoprite di essere stati sostituiti da un vostro clone che dichiara di essere la versione migliore di voi stessi. Questa è la premessa di Living With Yourself su Netflix, una delle novità del catalogo che tuttavia funziona solo a metà.

La serie, composta da otto episodi, è una dark comedy che tuttavia ha ben poco di umoristico nella sua messa un scena. Raccontata attraverso due punti di vista alterni, quello di Miles e quello del suo clone, Living With Yourself su Netflix permette allo spettatore di mettersi nei panni di entrambi. Allo stesso tempo, consente di vedere un camaleontico Paul Rudd. Lo show si regge sulla simpatia dell’attore di Ant-Man e Friends, in grado di passare da un ruolo all’altro: prima è un uomo insicuro della sua vita, poi in un carismatico e affascinante dipendente che conquista tutti al lavoro, perfino il suo capo intransigente. L’abilità di Rudd si nota soprattutto in una scena in particolare in cui Miles deve presentare il suo progetto davanti a un grosso cliente e cerca di imitare il suo clone – più sicuro di sé – tuttavia fallendo miseramente.

Living With Yourself su Netflix parte con ottime premesse; una prima parte di stagione è scorrevole, ed evidenzia le conseguenze dell’esperimento a cui il protagonista si sottopone. Sentendosi insoddisfatto sotto ogni punto di vista, Miles viene convinto dal suo amico Dan a provare una cura strabiliante che lo trasformerà in una persona diversa – letteralmente. Scettico all’idea, l’uomo spende buona parte del suo deposito per entrare in una spa miracolosa. Al risveglio, si scopre un uomo nuovo: gentile e premuroso con sua moglie Kate (Aisling Bea), si prende una rivincita sull’amico e ottiene una grandiosa opportunità al lavoro. Il problema è che si tratta di un suo sostituto. Il vero Miles si trova all’interno di una busta di plastica nel bel mezzo di una foresta. E in mutande. Tornato a casa, dopo aver scoperto che il suo doppione sta flirtando con sua moglie, Miles non è particolarmente felice all’idea di convivere con una versione di se stesso. Soprattutto se questa figura è migliore di lui in tutto.

Di base, Living With Yourself ricorda molto uno dei tanti film di genere mostrati sul grande schermo. Avevamo già citato la commedia Mi Sdoppio in 4, con Michael Keaton costretto a convivere con ben quattro versioni di se stesso, ma anche il più macabro Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde, romanzo gotico di Robert Louis Stevenson, volto ad esplorare l’ambiguità dell’essere umano. La serie creata da Timothy Greenberg resta però più focalizzata sulla lotta interiore tra bene e male, ovvero come può una persona convivere con i propri demoni e cercare di migliorarsi.

Insomma le premesse sono davvero buone, peccato che andando avanti, la storia stenti a decollare. A Living With Yourself su Netflix manca l’occasione di esplorare i limiti dell’high tech e le ansie che ne derivano: quali sono i rischi a cui ci sottoponiamo ogni volta che decidiamo di affidarci a un’intelligenza artificiale? Non basta creare una storia di base in cui un’agenzia iper tecnologica è in grado di clonarci attraverso l’utilizzo avanzato di DNA, trasferendo poi i nostri ricordi nella mente del doppione. Il problema è con ciò che accade dopo. Perché il nuovo Miles conosce a memoria ogni passo di danza del suo matrimonio con Kate? E, ironicamente, è un disastro quando è in intimità con lei? Al termine di questi otto episodi, la dark comedy ci lascia con un senso di incompletezza. Qual è il senso di tutto? Abbiamo imparato una lezione?

La serie ha la capacità di presentare molti aspetti interessanti, senza tuttavia approfondirle – probabilmente li lascerà in sospeso in attesa di un’eventuale seconda stagione. Non esente da difetti, la comedy di Greenberg si prende anche del tempo per dedicare un episodio a Kate, un personaggio che sicuramente merita un maggior approfondimento, soprattutto in relazione alle falle del suo matrimonio.

Living With Yourself su Netflix non è una serie perfetta, neanche originale, ma la scelta di Paul Rudd è assolutamente adatta per i motivi prima elencati. Ed è un buono motivo per seguirla.