Preferisco ascoltare l’attesissimo album dei Tool piuttosto che Lil Nas X, anzi fan*ulo allo streaming e a TikTok!

Se il più grande successo della storia della musica americana è tecnicamente Old Town Road di Lil Nas X, allora è arrivato il momento di una nostra resa incondizionata


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Non mi è mai piaciuto lo steampunk. O meglio, ho sempre provato una sorta di attrazione mentale per le istanze dello steampunk, ma non sono mai riuscito a apprezzare davvero uno dei romanzi che in questa particolare branca della fantascienza è incluso. L’idea di un passato vittoriano, poi è chiaro che ci sono anche altre declinazioni, ma l’era vittoriana è quella principalmente attenzionata dagli autori steampunk, nel quale finiscono aspetti futuribili, fantascientifici, con quella propensione anarcoide e rivoluzionaria tipica dei cyberpunk è sulla carta qualcosa di davvero elettrizzante, ma un po’ come succede spesso, o almeno a me succede spesso, la teoria e la pratica non sempre coincidono. Chiaro, l’immagine di Mozart con gli occhiali da sole che in qualche modo è diventata l’emblema del cyberpunk tutto, complice la copertina, almeno quella italiana, della antologia curata da Bruce Sterling intitolata Mirrorshades, è oggettivamente molto ma molto cool, come un titolo come Monna Lisa Cyberpunk, non prendiamoci in giro. Ma a parte il terzo dei tre racconti della raccolta Steampunk Trilogy di Paul Di Filippo, Walt e Emily, quello in cui sono tra i protagonisti Walt Whitman e Emily Dickinson, credo che niente che sia includibile in questo calderone mi abbia davvero appassionato, neanche tutte quelle opere scritte prima che il genere fosse decodificato, dai soliti Sterling e Gibson, col loro romanzo La macchina della realtà, da quelle di Wells a quelle di Jeter, passando per l’ovvio Jules Verne, che ho sempre considerato minore rispetto a Salgari. Non fa eccezione neanche La lega degli straordinari gentiluomini di Alan Moore, romanzo a fumetti uscito una decina d’anni dopo questa prima ondata, e per chi scrive Alan Moore è una sorta di impersonificazione della narrazione, barba e lunghi capelli lunghi inclusi.

Non mi è mai piaciuto lo steampunk, ripeto, anche se in qualche modo da circa cinque anni mi ritrovo a essere una sorta di personificazione anche piuttosto fedele di un critico musicale streampunk. Mi spiego, da circa cinque anni sono tornato a scrivere di musica con continuità. Lo faccio in rete, perché quando nel 2006 ho lasciato, almeno per un po’, il mondo dell’editoria così detta da edicola, mi ero riproposto di non tornare più a scrivere su carta. Ritenevo, e ritengo, che giornali e magazine cartacei siano ormai superati, e in questo, immagino, ci ho visto abbastanza giusto. D’altra parte non ho mai letto un ebook, preferendo ancora categoricamente leggere libri di carta. Ne ho casa letteralmente piena, già solo i settantotto che ho pubblicato io, tutti stampati in tomi di carta e colla, occupano un buono spazio di una libreria che ospita qualcosa come cinquemila tomi. E qui già si è creata una prima crepa nel mio discorso precedente, immagino. Scrivo solo per l’online, come critico musicale, ma leggo solo libri di carta. Non solo, scrivo solo per giornali e magazine online, occupandomi di musica, e nel tempo mi sono andato ritagliando il ruolo di colui che più di ogni altro critico musicale in Italia è ostile a Spotify e allo streaming, anche se durante l’estate abbiamo tutti potuto vedere le manovre di spostamento in tale direzione anche di giornalisti musicali solitamente più moderati, suppongo figlie di indicazioni ricevute dall’alto dai rispettivi padroncini. Come dire, vivo in rete, faccio anche un uso professionale dei social, seppur a fatica, ma ritengo che ascoltare musica in streaming sia dannoso, non solo perché Spotify e affini hanno sostanzialmente ridotto al minimo i guadagni degli artisti, andando quindi a colpire coloro che in realtà, fossero minimamente interessati all’arte e non al profitto, avrebbero dovuto coccolare, ma anche perché, l’ho spiegato più e più volte, lo streaming ha in qualche modo spinto una intera generazione, quella dei più giovani, verso una omologazione della scrittura verso il basso, omologazione che ha poi visto un inseguimento goffo da parte di molti artisti più attempati. Ascoltare la musica con supporti non nati per ascoltare la musica ha in qualche modo spinto chi la musica la fa a tagliare via tutta una serie di sfumature affatto collaterali, col risultato che tutti possiamo tristemente ascoltare, ritmi che si somigliano tutti, zero armonia, frequenze schiacciate, musica demmerda. Recentemente, spinto da una sorta di disperazione romantica, mi sono addirittura addentrato verso una sorta di incartamento, incartamento che mi ha visto cominciare a vagheggiare di una sorta di rinascita culturale, di resistenza al brutto, con tanto di citazione dell’esempio dei Preraffaelliti e della loro confraternita, loro sì degni di finire dentro un romanzo steampunk.

Insomma, sono un uomo di cinquant’anni che scrive online mettendo in guardia i lettori contro i pericoli della rete, neanche Cazzullo che su Twitter ci dice di spegnere il cellulare credo sia mai arrivato a tanto.

Non faticherete quindi a capire il mio imbarazzo quando, qualche anno fa, avevo da poco ripreso a occuparmi di critica musicale per un quotidiano nazionale, andando a ritagliarmi una grande visibilità a contribuendo non poco a far crescere una redazione giovane e poco incline a capire le cose del mondo, figuriamoci del mondo della musica, non faticherete quindi a capire il mio imbarazzo, dicevo, quando la rockstar indiscussa che dirige la versione cartacea di questo giornale ha cominciato a immettere in rete dei videini in cui faceva movimenti discutibili mentre sotto andava musica altrettanto discutibile. Proprio in quel periodo, l’ultimo che ho passato in quella redazione, metaforicamente parlando, stava nascendo un progetto televisivo legato al brand di quel giornale e visto che io ero la firma musicale più riconoscibile della testata si sono sentiti in dovere di spiegarmi come quella particolare applicazione, Musical.ly, fosse senza ombra di dubbio il futuro della comunicazione musicale. Di qui la scelta di diventarne in qualche modo partner sul fronte produttivo. Non credo sia necessario spiegare che la faccenda mi ha lasciato abbastanza basito, ovviamente niente in confronto altri comportamenti riscontrati dalla suddetta redazione, ma pur sempre basito, per cui ho sorriso imbarazzato alla rockstar di cui sopra e sono andato a piangere in bagno, dignitosamente.

Ora, non mi è mai piaciuto lo steampunk e, lo confesso, quando mia moglie nel 2007, credo, mi ha parlato per la prima volta di Facebook l’ho presa per il culo per giorni e giorni, perché fondamentalmente se devo cercare un qualche nesso tra me e lo steampunk lo trovo più nello Walt Whitman protagonista del racconto Walt e Emily di Paul Di Filippo che in Paul Di Filippo o alcunché di vagamente tecnologico. Però ritenevo, e ritengo, che mimare in playback un qualche movimento di danza, facendo anche il lip sync, sia una sorta di cristallizzazione del degrado verso il quale stiamo scivolando, sorta di involuzione del karaoke che già, sarete tutti d’accordo, abbastanza degradante era stato. E se il karaoke ha in qualche modo indotto chiunque a pensare di poter cantare, fatto che ha aperto le porte ai talent, sorta di mix tra il Karaoke e lo spirito del “chiunque può diventare una star” tipica di certe reality show alla Grande Fratello, Musical.ly, a prescindere dalla partnership immagino finita nel nulla col giornale di cui sopra, verso cosa mai avrebbe potuto portare?

Potrei bluffare e dire che, da quel giorno in cui, nella redazione romana nuova di zecca impattai nello spettacolo imbarazzante della rockstar lì a fare le facce buffe con la musica di sottofondo, me lo sono chiesto tutti i giorni, ma l’ho già detto anche troppe volte, ho un subconscio che mi ama alla follia, e confesso di non aver più pensato a Musical.ly fino qualche mese fa. Vorrei poter dire di non aver più pensato neanche a quel giornale, ma vedere i miei pezzi ancora lì, quelli a mia firma come quelli a firma di altri, palesemente ispirati dai miei, me lo ha reso più difficile. Comunque ho rimosso Musical.ly, fiero di essere una sorta di vecchio brontolone che grida come Cassandra ipotizzando l’imminente Apocalisse della rete. Poi è successo che ho scoperto che Musical.ly non esiste più, ma che la sua evoluzione, Dio mi perdoni per usare questa parola parlando di queste cazzate, è non solo viva e vegeta, ma ha anche dato vita a quello che, tecnicamente, è a oggi il singolo di più grande successo della storia della musica americana, Old Town Road di Lil Nas X.

Che io sia qui a parlarvi oggi di Lil Nas X e della sua Old Town Road potrebbe sembrare un gesto naif, un autovezzeggiarmi atto a dimostrare come io sia ormai fuori dal tempo, quindi in diritto di raccontare oggi una storia che è già stata non solo decodificata, ma anche digerita e forse addirittura cagata dopo la digestione, ma in realtà è una sorta di resa incondizionata, come quando certi popoli nativi americani che hanno provato a lungo a resistere all’invasione europea, salvo poi diventare la versione sporca e anche volgare proprio degli archetipi europei. Perché voglio che sia messo agli atti che non solo non riesco a capire un cazzo di tecnologie, e quindi mai avrei scommesso un centesimo su Musical.ly, ma che se Old Town Road, nella versione originale o nel remix che vede coinvolto Billy Ray Cyrus, il padre di Miley, è davvero un singolo che si è meritato il mega successo che ha avuto, beh, allora ci sono ottime possibilità che io non capisca neanche un cazzo di musica, perché onestamente nel corso della mia ormai non giovane vita ho sentito altre commistioni tra rap e country, questa sembra essere la novità premiata da cotanto successo, a partire da quel Bubba Sparxxx che rispetto a Lil Nas X sembra una sorta di colosso di Rodi rispetto a un castello di sabbia. Poi, che il nostro, artista ventenne di Atlanta, dichiaratosi gay l’ultimo giorno del mese del Pride, abbia avuto una abilità gigantesca proprio nell’utilizzo della rete, TikTok in testa, è lapalissiano, e TikTok è appunto il modo in cui oggi si fa chiamare Musical.ly (lo so, detto così sembra che la app abbia cambiato identità per vergogna, e questa è la mia lettura dei fatti, ma fatemi giocare, che già sto scrivendo un pezzo su uno di cui avrei decisamente fatto a meno), fatto che lo ha posto sotto gli occhi di tutti, discografia e Billy Ray Cyrus compresi, e che gli ha poi fruttato quelle diciassette settimane in testa alla classifica dei singoli Billboard, record dei record, ma da qui a gridare al miracolo ci andrei cauto. Una canzone che è esplosa prima come meme di TikTok, non credo si dica così ma rende l’idea, e poi è esplosa come singolo tout-court resta una canzone nata come meme su TikTok, non è detto diventi l’inizio di una scintillante carriera. Rischia semmai, ma so che verrò ancora una volta smentito dai fatti, di rimanere una sorta di My Sharona degli Knack dell’Urban/pop, visto che al momento del suo album si hanno solo fumose notizie, ma del resto siamo nell’epoca dello streaming, chi se ne frega degli album.

Insomma, in attesa di vedere prossimamente la rockstar del giornalismo canticchiare una canzone di Renato Zero su TikTok, o meglio, mimarla in playback, vado a ascoltarmi l’attesissimo album dei Tool, canzoni in buona parte lunghe oltre dieci minuti, e fanculo allo streaming e a TikTok.