Ric Ocasek è morto e con lui è morta una grande quantità di talento puro e cristallino, il suo

Il leader dei The Cars aveva un talento innato per la scrittura di canzoni, alte e basse al tempo stesso, in una parola postmoderne. Riusciva a essere colto e popolare, come quasi mai la musica alta riesce a essere


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Comincia a essere un po’ sconfortante.

Lo so, la morte di un artista che non conosciamo di persona non può essere equiparato a un lutto personale, o almeno, può ma in genere a farlo, sembra, è solo chi non ha vissuto da poco un lutto personale. Tutto vero. Ma è anche vero che se un artista ci ha accompagnato per una porzione importante della nostra vita, nel caso specifico una quarantina d’anni, è difficile distinguere tra vita reale e vita percepita, un po’ come succede con la temperatura d’estate, quando si muore di caldo nonostante il termometro ci dica che sono solo trenta gradi.

Ecco, diciamo che la morte degli artisti che apprezziamo è un po’ come la sensazione del calore addizionato all’umidità, in teoria non dovremmo rimanere più di tanto colpiti dalla morte di uno sconosciuto, ma nei fatti proviamo un dolore reale, anche perché gli artisti tutto sono fuorché degli sconosciuti. Vaglielo a dire, tu, al corpo che non sta sudando perché il termometro dice trenta e non quaranta gradi. Vaglielo a dire al tuo cuore che spezzarsi per un artista è sbagliato.

Per questo dico che comincia a essere sconfortante, perché da nato nel 1969, nel corso degli ultimi anni ho visto, e continuo quasi quotidianamente a vedere una incessante moria dei miei artisti di riferimento, almeno di quelli coi quali sono cresciuti.

L’ultimo è Ric Ocasek, non esattamente un ultimo, per intenderci. È morto ieri, non si sa ancora per quali cause, né si sa esattamente la sua età. Molti ritengono ne avesse settantacinque, ma girano altre date di nascita, che lo volevano più giovane di cinque anni. Nei fatti Ric Ocasek è morto e con lui è morta una grande quantità di talento puro e cristallino, il suo. Diventato famoso dalle nostre parti negli anni Ottanta, quando cioè di musica di merda ne girava a palate, come ormai anche i sassi potrebbero recitare a memoria, ma anche di ottima musica, diventato famoso dalle nostre parti negli anni Ottanta come leader dei The Cars, band che riusciva nell’intento non così semplice di coniugare i suoni della new wave con certo rock americano, sorte che forse è capitata a pochi altri, penso a un Dave Stewart, Ric ha poi proseguito con una altrettanto fortunata carriera solista, in parallelo, andando nel tempo a ritagliarsi anche un ottimo posto da produttore.

Del resto coi The Cars, band per la quale ha scritto quasi tutte le canzoni in solitaria, e spesso ha anche suonato tutte le tracce dei suoi album solisti, chitarre, il suo strumento principale, ma anche bassi, tastiere, piano, oltre che, naturalmente, la voce. Facile passare poi a produrre musica conto terzi. Quello che potrebbe stupire, se uno si concentrasse banalmente solo sul fatto che negli anni Ottanta i The Cars sono stati anche un gruppo da classifica, in mezzo a quella musica pop fatta di synth che oggi amiamo dileggiare (e che invece molti giovani artisti stanno saccheggiando, pur non avendo la capacità di farlo come si deve) è che dischi Ric Ocasek ha prodotto nel tempo, perché lui, che da noi è stato a lungo scambiato per una sorta di sfigato con la giacca troppo larga portata sopra una t-shirt che aveva azzeccato qualche hit, è poi diventato non solo un incredibile artista solista, come se già la discografia tutta dei The Cars non fosse sufficiente, ma ha seduto al banco di produzione di artisti che, invece, mettevano d’accordo un po’ tutti i puristi del rock, un po’ in tutte le sfumature possibili, dal punk dei Bad Brains all’hardcore dei Bad Religion, passando per i The Killers, i Nada Surf e i The Weezer, che ai The Cars tanto devono non solo per le produzioni degli album Blu e Green. Ecco, Ric Ocasek, con quella corporatura decisamente troppo magra, quella pettinatura discutibile, le giacche glitterate sempre troppo larghe, ma non volutamente troppo larghe come un David Byrne, era un cazzo di fottuto genio, oggi che è morto, a settanta o settantacinque anni, vallo poi a sapere, ce lo possiamo serenamente dire.

E lo era perché aveva un talento innato per lo scrivere canzoni, alte e basse al tempo stesso, in una parola postmoderne. Riusciva, cioè, a essere colto, questo ci dicevano le architetture musicali che costruiva, ma popolare, come quasi mai la musica alta riesce a essere. La sua musica ha incarnato il lato encomiabile degli anni Ottanta, decennio infausto più per come ce lo hanno raccontato che per quello che ha in effetti prodotto, perché è sì stato quello del pop usa e getta, ma anche del post-punk, della new wave, e anche della nascita e lo sviluppo di tante e tante realtà che oggi non possiamo che rimpiangere, si pensi all’esplosione di quel rock americano che ha trovato asilo nelle college radio, i R.E.M., tanto per fare un nome eclatante.

Visto che vi ammorbo ormai da mesi con i miei ricordi adolescenziali e giovanili, non vi stupirete, immagino, ora che vado a dirvi che il mio primo ricordo di un album dei The Cars, a casa del mio amico d’infanzia Giacomo. I genitori di Giacomo erano un impiegato di banca e una professoressa, ragione per la quale, mi dicevo allora, Giacomo poteva comprarsi molti più dischi di me, e quando dico dischi intendo proprio dischi, quelli in vinile che oggi fanno tanto cool, e che allora erano la versione seria di chi, come me, si comprava gli album in audiocassetta. L’album in questione era Candy-O, in realtà uscito nel 1979, trainato dal singolo Let’s Go, e la copertina mostrava una tipa poco coperta da un body trasparente appoggiato su una auto appena accennata alle matite. Niente di particolarmente pruriginoso, oggi, ma stiamo parlando dei primi anni Ottanta, fidatevi, anche solo quella fu un vero shock. Del resto a casa di Giacomo di musica ne passava parecchia, i genitori, ricordo, ascoltavano America di Gianna Nannini, proprio mentre i miei continuavano imperterriti a ascoltare Domenico Modugno, fatto che li faceva apparire ai miei occhi molto più giovani dei miei genitori. Figuratevi la mia meraviglia, pochi anni fa, quando ho in effetti ricostruito che no, non erano poi così più giovani, giusto qualche anno. Ecco, diciamo che grazie a Giacomo e a una tipa coperta da un body trasparente mi sono avvicinato a Ric Okasek e ai The Cars, pur continuando a ritenere Paul King molto più figo di lui. Con gli anni ho anche capito di quanta ricchezza musicale la band avesse da offrirci, una volta quietati gli ormoni. La prima volta che mi è capitato di suonare in pubblico, era a una festa di carnevale, nella seconda metà degli anni Ottanta, indossavo una giacca di mio padre, decisamente più grande di me, con sotto una t-shirt bianca, imbracciando la mia chitarra elettrica imitazione di una Fender Strato, qualcosa vorrà pur dire.

Ric Ocasek, che per altro tanto sfigato come ai tempi di Deejay Television ce lo raccontavamo non era affatto, si veda alla sua vita privata, non esattamente da nerd, muore un anno dopo che la sua band, i The Cars sono entrati di diritto alla Rock And Roll Hall of Fame di Cleveland, sempre che sia questo atto dovuto a certificare qualcosa più di quanto la sua musica non avesse già fatto con le nostre vite.

Ascoltare oggi Drive o Magic, o andando sulla carriera solista, Emotion in Motion ha un sapore malinconico, doloroso. Perché ci dice che un’epoca in cui il talento poteva essere sviluppato nel corso degli anni, fregandosene delle mode e delle pose, è ormai definitivamente da relegare al passato. E ci dice, ma questo magari riguarda me che scrivo più che voi che leggete, che il tempo che passa sancisce il fatto che stiamo invecchiando e che invecchiare ci priva giorno dopo giorno di un pezzetto del nostro vissuto. Poi, è chiaro, fuori non c’è più caldo, l’umidità è contenuta, almeno abbiamo smesso di sudare.