Jovanotti contro l’Italia dei NO, quella che musicalmente vorrei io

La ribellione passa per i no, come la resistenza. Oggi abbiamo ancora la nostra occasione di ribellarci al brutto


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Ho esordito, parlo del mio esordio editoriale, a cavallo tra il 1997 e il 1998. Ho esordito con una raccolta di racconti, “furibonde giornate senza atti d’amore”, così, tutto minuscolo, grazie al fatto di aver partecipato, pochi mesi prima, a maggio 1997, a quel piccolo miracolo per la letteratura italiana che è stato ricercare, laboratorio di scrittura voluto da Nanni Balestrini in quel di Reggio Emilia, che nel corso degli anni tra la metà dei Novanta e i primi anni zero ha visto susseguirsi tra i partecipanti buona parte delle menti migliori della mia generazione, parlo sempre di menti che in qualche modo avessero ambizione a avere a che fare coi libri. Nei due anni precedenti a quel 1997, per essere precisi, a quel laboratorio letterario, che vedeva tra gli altri promotori Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Massimo Canalini e Giulio Mozzi, avevano partecipato praticamente tutti coloro che poi sarebbero stati inclusi nell’antologia, verrebbe quasi da dire compilation, visto l’aura da popstar che di lì a breve accompagnerà i nomi in questioni, chiamata Gioventù Cannibale. Qualcosa che, se è possibile fare questo tipo di ragionamento, ha preso la felice intuizione dello stesso Canalini, a capo della Transeuropa, nel momento in cui ha dato alle stampe le antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli e l’ha resa mainstream, regalando al tempo stesso qualche scampolo di celebrità a tutti i partecipanti, i “contenuti”, e soprattutto alla casa editrice che ha pubblicato il tutto, Stile Libero dell’Einaudi, il “contenitore”.

Allora, parliamo degli anni Novanta, badate bene, è partita una stagione in cui essere giovani e scrivere libri non dava vita a un ossimoro. Diverso dall’essere esordiente, fate attenzione, tipologia cui le case editrici, le grandi case editrici, praticamente le major dell’editoria, guarderanno con grande attenzione nel decennio successivo, più per contenere le spese degli anticipi che per un reale interesse, essere giovani, e di conseguenza, Gioventù cannibale diceva nel titolo già molto, anche essere cattivo, sporco, irriverente, feroce. Non è un caso che, proprio in quel 1997 in cui calcavo le assi del Teatro Regio di Reggio Emilia leggendo il mio racconto “un posto meno spaventoso” davanti a una platea di colleghi, critici letterari e editori, passava da quelle parti anche l’enfat prodige Enrico Brizzi, già titolare del megasuccesso Jack Frusciante è uscito dal gruppo, lì col romanzo Bastogne, suo tentativo di dimostrarsi non dico cattivo, ma quantomeno un po’ meno rassicurante di quanto il suo esordio non lasciasse intendere. Eravamo giovani, questo è un fatto, e provavamo anche a dire la nostra. Io, non credo sia necessario sottolinearlo, arrivavo buon ultimo, in coda ai miei coetanei destinati a lasciare segni assai più significativi nel mondo delle lettere, ma non credo sia questo il punto. Non lo è per me, almeno. Il punto è che in quella stagione, parlo degli anni Novanta, sembrava realmente che il mondo delle lettere, di colpo, potesse diventare un luogo anche per chi si affacciava alla vita esattamente in quel momento, spazzando via anni di Accademia, di polvere, di capelli bianchi. Non a caso a promuovere quella piccola rivoluzione c’era Nanni Balestrini, già nel Gruppo 63. Ma, ripeto, non è di letteratura che voglio parlare, non in maniera diretta, almeno. Sta di fatto che in quegli anni agitati mi capitava spesso di incrociare la strada con miei colleghi appena più grandi di me, penso ai Tiziano Scarpa, agli Aldo Nove, ai Niccolò Ammaniti, e capitava che questi colleghi appena più grandi di me, generosamente, spendessero buone parole per noi appena più giovani, penso a me, penso ai Giuseppe Genna, ai Tommaso Pincio (non più giovane anagraficamente, ma editorialmente). Era uno spirito vagamente punk che ci muoveva. Pensavamo realmente di poter cambiare qualcosa, partendo del basso.

Poi la vita ha mosso altri fili. O li abbiamo mossi noi, vallo a capire. Non importa.

Oggi ho cinquant’anni. Incrocio raramente i miei colleghi di allora, non quelli su menzionati, per altri, e altrettanto raramente quelli che, più per una consuetudine che per un dato di fatto, vengono considerati i miei colleghi di oggi. Incrocio più spesso la strada con musicisti e cantanti, ma questa è stata più inizialmente una scelta, e oggi è una contingenza.

Se però oggi, proprio oggi, a inizio settembre 2019, dovessi incrociare la strada con Niccolò Ammaniti, per dirne uno, che al mio primo romanzo, Questa volta il fuoco, anno del Signore 1999, scrisse parola assai incoraggianti sulla mia opera, credo più dettate dalle generosità che dall’obiettività, lui già diventata una rockstar mentre io ancora lì a dibattermi nella polvere fantiana, ecco, se oggi dovessi incrociare la mia strada con Niccolò Ammaniti sono sicuro che non esiterebbe a fare di me il protagonista di una sua prossima opera, se non un romanzo, magari, una nuova serie tv, lui che ha sempre infilato la mia Ancona nelle sue narrazioni, per motivi che ancora non ho capito. E lo farebbe, ne sono davvero certo, perché ultimamente chi mi sta intorno assiste spesso allo spettacolo di me che improvvisamente sanguino dagli occhi e dalle orecchie, come una sorta di Madonna di Civitavecchia laica. Non un grande spettacolo, immagino, anche perché, avendo io la barba, il tutto prosegue con lo spettacolo altrettanto macabro di me stesso che cerco di pulirmi malamente, finendo per diventare una sorta di Carrie la sera del Ballo di Fine anno, senza neanche avere io la soddisfazione, poi, di devastare tutto. O almeno, di devastare tutto non tanto quanto vorrei.

Fermi tutti. Non pensiate che ho fatto tutta questa lunga premessa parlando dei Cannibali, così venivano chiamati gli scrittori di cui sopra, sulla rivoluzione dei giovani scrittori e compagnia bella solo per fare una battutina scema riguardo il fatto che mi sanguinano occhi e orecchi, ultimamente. Non abbiate così poca stima di me. Esiste un legame neanche troppo sottile tra il perché ho iniziato parlando di quella che è stata, a suo modo, una piccola rivoluzione del mondo delle lettere, e il motivo per cui mi sanguinano gli occhi e le orecchie. E il legame è, ca va sans dire, dovuto proprio a quello spirito punk di cui facevo cenno sopra, o forse all’assenza di quello spirito punk in un contesto nel quale, per motivi che vanno sopra la mia volontà, viene citato sempre e a sproposito.

Vado al sodo.

Viviamo quella che qualche inguaribile romantico chiama la Nouvelle Vague della discografia italiana. Ora, facendo la tara riguardo il fatto che la discografia ormai è praticamente morta, usiamo il termine in questione per intendere la filiera della musica tutta, includendo in questo contesto non solo quindi la produzione degli album e dei singoli, ma anche i live, la promozione e tutto quel che intorno alle canzoni ruota. Per Nouvelle Vague, lo avrete già letto altrove, si intende un movimento di rinascita, guardato sempre con sguardo benevolo, che nello specifico non volendo tirare in ballo direttamente quel che invece andrebbe assolutamente tirato in ballo, il pop, utilizza due fonemi di più recente conio, cioè Indie e Trap. Con il primo si vuole guardare a quella nuova variazione del pop da classifica che, per ragioni di facciata, viene comunemente spacciato per indipendente, anche se tutti i protagonisti hanno più e più legami con le major, da quelli editoriali a quelli di distribuzione, se non addirittura quelli prettamente discografici. Qualcuno, infatti, ha deciso di coniare a riguardo il nomignolo ItPop, che però, facendo così tanto cagare, non ha assolutamente attecchito. Si tratta di canzoni che si rifanno prevalentemente agli anni Ottanta, ma a quelli brutti che giustamente anche a distanza di quasi quarant’anni vengono scherniti come vuoti e superficiali. Certo, alcuni dei modelli presi a matrice sono ancora oggi pregevoli, penso all’opera omnia di Luca Carboni, ma l’Indie riesce vagamente a indicarlo come stella cometa, non è certo in grado di replicarne la potenza poetica.

La Trap è una delle ultime sfumature del rap, e so bene che nello sbolognare così il tutto farò infuriare buona parte di chi con la Trap ha a diverso livello a che fare, ma stiamo parlano del grado zero di un genere che in oltre quarant’anni ha davvero regalato alcuni dei capisaldi della discografia di fine Novecento e inizio Duemila, perché mai si dovrebbe perdere tempo dietro chi abusa di autotune, svuotando nella quasi totalità dei casi il messaggio a beneficio per altro di una forma neanche così accattivante? Indie e Trap, quindi, questi sarebbero i due cavalli bianchi capaci di trainare il cocchio di Cenerentola verso la fine della notte, intendendo con questo, lo dico a beneficio degli analfabeti funzionali che ancora stanno leggendo nonostante le tante parole e tantissime relative che ho provato a mettere tra me e loro, salvare la discografia dall’imminente fine, la Nouvelle Vague, appunto.

Ora, quando parlo di me che sanguino dagli occhi e dagli orecchi non faccio certo riferimento alla bassa qualità artistica, sempre che di arte ce ne sia anche un minimo, di questi due generi. Non sono così banale, dai. Vado oltre, e vi invito a seguirmi per questi ultimi tornanti. Il fatto è, che non paghi dell’aver dato a bere a un po’ tutti che Indie e Trap siano in effetti generi musicali degni di nota, addirittura degni di essere osannati, c’è chi va oltre e, per dare anche una qualche giustificazione morale alla scarsa capacità artistica e musicale dei protagonisti dei rispettivi generi, azzarda paragoni col punk. Il non detto, o non esplicitamente detto sarebbe “anche i punk non erano capaci di suonare, ma hanno fatto la storia della musica”, come dire: perché gente senza arte né parte non dovrebbe far Indie o Trap dal momento che c’erano artisti punk che hanno scritto pagine fondamentali della cultura popolare di fine Novecento senza aver mai preso una lezione di canto o di un qualche strumento?

Ora, converrete con me che di fronte a tanta arrogante ignoranza spiattellata così, senza ritegno, l’unica reazione plausibile sia lasciarsi morire sanguinando copiosamente dagli occhi e dagli orecchi. Perché non solo si palesa ignoranza riguardo la nascita del punk, parlo di quello americano, prima, e inglese poi, ma anche dell’evoluzione e involuzione che al punk ha fatto seguito, passando dalla New Wave, quindi, per finire in quelle lande incredibilmente rivoluzionarie che furono quelle colonizzate dalla No Wave newyorkese proprio nel momento in cui il Punk e la New Wave veniva decodificato, metabolizzato e digerito dal mercato.

Ora, ambire a un mondo in cui ci siano nuovi Lydia Lunch, James Chance, Arto Lindsay, Alan Vega e soprattutto Brian Eno mi sembra davvero troppo, ma pensare che il punk fosse solo e soltanto non saper suonare è un po’ troppo per chi ambisce a parlare con lucidità di musica. Per parte mia amerei davvero che, in un momento in cui il vuoto e la superficialità sono tornati di moda, esattamente come nella parte sbagliata degli anni Ottanta, senza però poter vantare la contemporaneità con la fine della Guerra Fredda e un Boom Economico destinato a non avere seguito, amerei davvero che qualcuno provasse a alzare il tiro, magari in maniera altrettanto devastante dei No Waver, termine che agghiaccerebbe tutti gli artisti, perché di artisti si tratta, che hanno incendiato quella scena. Amerei davvero che qualcuno provasse a azzerare tutto, complice un certo stallo del jazz, che proprio con la No Wave ebbe più di qualche connessione, e soprattutto in virtù di questo enorme Far West che è oggi la filiera musicale, dove soldi sembrano circolarne tantissimi, come mai prima, ma sembra anche che nessuno dei protagonisti primari e secondari abbia modo di avvantaggiarsene. Come dire, se mai come oggi il mercato è vaporizzato, frammentario, incapace di dare da vivere, forse è il momento di provare a fare la propria arte, smontando i cliché, uccidendo i padri, inseguendo l’ispirazione invece che il successo, fregandosene di tutto e tutti.

Jovanotti, e giuro che poi smetto di parlare di uno che di questa epoca è più che mai icona, parlando del concerto saltato a Vasto ha detto che “L’Italia è il paese dei No”. Voleva ovviamente rinfacciare a chi gli ha impedito di portare il Jova Beach Party in quella parte dell’Abruzzo di aver negato un permesso, giocando la carta del “c’è chi fa e chi si lamenta”. Ecco, io ambisco a un Italia musicale dei No, perché mai come oggi sarebbe il caso di ribellarsi di fronte al brutto e alla merda.