Adèl Tirant, è lei il nostro punto di partenza per la resistenza al brutto

È il mio idolo personale indiscusso del momento. Seguiamola e proviamo a farci guidare fuori da questo buio. Resistiamo!


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La tentazione potrebbe essere quella di tirarsene fuori. Fermarsi, scendere, lasciarsi tutto alle spalle. Da quel che si capisce non per molto, perché potrebbe essere davvero poco il tempo che ci rimane. Ma tant’è, almeno passare questo residuo di vita lontano da quello che Kurtz chiamava, giustamente, l’orrore, l’orrore con un volto.

A voi, chiaro, decidere a cosa applicare il mio discorso. Chiavi di lettura, senza star troppo a sottilizzare, ce ne sono molte. Dal pianeta che soffoca tra i colpi di tosse che arrivano dagli incendi in Amazzonia e Siberia a quello che sta capitando alla nostra politica, mai caduta così in basso come oggi, passando, perché di questo mi occupo io, in fondo, per scelta o necessità, per la musica, ma così stonata, banale, sciatta, nulla.

La tentazione potrebbe essere quella di tirarsene fuori oppure, questo è successo molte volte negli ultimi anni, di riderci sopra. In una parola, ironizzare. Sminuire, dare una patina di pura estetica a qualcosa che, ai nostri occhi evidentemente ha perso di senso. Certo sempre meglio che lasciarsi andare alla disperazione, a una depressa negazione di ogni ipotesi di futuro, priva di quel nichilismo anarchico ma vitale dello spirito punk, penso allo slogan No Future appunto, ma più che altro arroccata in una sorta di nostalgia per il passato prossimo, come in maniera estremamente lucida ci ha raccontato Mark Fisher. Come se di colpo, venuta meno la spinta sognatrice della costruzione e la ricostruzione, morto ogni residuo di tutto quello che dall’Illuminismo ci aveva portato al modernismo, non fosse rimasto altro che una sorta di citazionismo scherzoso, ironico appunto, fatto di alto e basso mischiati insieme, senza distinzioni. Di più, come se di tutto quello che era stato il postmoderno, vedi sopra, non fosse rimasto che una sorta di voracità virtuale e poco virtuosa, una volata iperconessa e frammentaria incapace di lasciare traccia, se non nell’immediato. Un meme perenne, cangiante ma non per questo bidemensionale, figuriamoci se paragonabile al reale.

Non è un caso che proprio colui che a lungo è stato indicato, a ragione, come uno dei massimi artisti postmoderni, David Foster Wallace, venga oggi ricordato come colui che, prima di uccidersi, esattamente come Mark Fisher, provò a ridisegnare la mappa del mondo indicando in un recupero del sentimento, in un ricollocamento al centro dell’attenzione di valori come la solidarietà e un approccio ambientalista alto, una via di fuga dall’apocalisse che la prima grande crisi economica globale dopo il secondo conflitto mondiale ci ha posto di fronte. Non è un caso che David Foster Wallace, uno dei massimi artisti postmoderni, si sia ritrovato a prendere le distanze da quell’ironia che così tanto aveva abitato le sue pagine. Ironia che a volte, questo il rischio di chi è intellettuale, consapevolmente, a volte slittava verso il sarcasmo.

Ora, di fronte a tutto questo, spettacolo forse anche più catastrofico da quello ipotizzato da Wallace, che sembrava guardare a una New Sincerity e a un familismo circoscritto, non necessariamente consolatorio ma quantomeno con un recinto ben evidente, da Eggers a Safran Foer/Franzen, una via percorribile, vallo a sapere, credo sia arrivato il momento di provare a ipotizzare una qualche forma di resistenza. Certo non possono essere queste righe le destinatarie di un così alto compito, ma un po’ come successe ai tempi della Confraternita dei Preraffaelliti, quando Gabriel Dante Rossetti, John Everett Millais e  William Holman Hunt, sotto lo sguardo critico e benevolo di John Ruskin, tentarono una resistenza al Vittorianesimo in una ricerca costante di un passato spesso solo immaginato cui guardare con nostalgia e in un perseguire la bellezza  reale come valore in sé, di qui la scelta del nome che identificava in Raffaello Sanzio il colpevole di aver idealizzato la natura e di conseguenza di aver perpetrato una ricerca di una bellezza non vera, a discapito di un approccio più sincero. Certo, i Preraffaelliti si caratterizzarono anche per una loro notevole rockstarritudine, un atteggiamento bohemien, volendo anche psichedelico che contribuì non poco a fare di quegli artisti dei personaggi antelitteram, e delle modelle che per quegli artisti posarono, Elizabeth Siddal in primis, delle vere e proprie top model in anticipo di secoli, ma il porre la donna e la bellezza della donna al centro della propria poetica contribuì non poco, e si tratterà di una prima rivoluzione non troppo diversa da quella che avverrà sempre a Londra negli anni Sessanta del ventesimo secolo, a un protofemminismo reale, con la donna emancipata nei quadri assai prima che nella vita reale, questa sì incoerenza formale o più propriamente proiezione di un futuro cui mirare.

Volendo quindi provare a tratteggiare timidamente una idea di resistenza, e volendolo fare nel campo di cui mi occupo su queste pagine, direi che si potrebbe partire da una idea di New Sincerity musicale, capace se possibile di tenere quanto di buono, in fondo, il postmoderno ci ha donato, ma provando a andare oltre, esattamente come David Foster Wallace indicò ormai oltre un decennio fa. E scrivere queste parole mentre esce la notizia che a breve sarà nelle sale la quarta parte di Matrix, non più dei fratelli Watchowski, ma della sola Lana Watchowski, autrice e regista di questo nuono episodio senza l’inseparabile Lilly, anche lei nel mentre divenuta donna, lascia un po’ spiazzati. Perché con quel mix di cyberpunk, religoni orientali, scritti dickiani, cinema di arti marziali e fantascientifico che era stata la prima trilogia, uscita una ventina di anni fa, il postmoderno aveva trovato al cinema una propria cristallizzazione, estetica pura, citazione di alto e basso a raffica, più forma che sostanza in una apparenza di grandi profondità. Basti pensare a Keanu Reeves, che in Matrix interpretava e interpreterà Neo, ero della resistenza contro la macchina, chiamiamola così, divenuto una sorta di meme vivente anche in virtù di quel film e oggi pronto a tornare in quei panni dopo aver prestato faccia e fisico proprio a un videogioco che dal cyberpunk prende le mosse.

Dicevamo, quindi, partire da una New Sincerity che tenga conto del postmoderno, e anche di quella deriva impazzita che è un po’ diventata la nostra realtà quotidiana, il virtuale frammentario e iperconnesso che neanche prova a fare una vera e propria narrazione, ma che va avanti a suon di slogan e meme, una lotta strenua, quindi, contro la contemporaneità non troppo dissimile da quella attuata da Neo e i suoi compari, a partire dal grande Morpheus, la Nabucodonosor. Non qualcosa che combatta la contemporaneità, seppur la Nabucodonosor apparisse nell’immaginario watchowskiano assai sgaruppata e rattoppata, figuriamoci se luddista, ma più qualcosa di saldamente fisico, viscerale, volendo potremmo anche dire analogico in un mondo evaporato e digitale, volessimo giocare al ribasso potremmo dire un solido vinile rispetto a un link di un brano in streaming, una chitarra elettrica vs un plug-in.

Ma siccome a parlare e parlare non necessariamente ci si sposta da qualche parte, direi che si potrebbe più serenamente partire da un nome, e da quel nome iniziare una sorta di percorso, passo dopo passo. Il nome che vi faccio oggi è quello di Adèl Tirant, nome francesizzato, perché così facevano le cantanti napoletane che si rifacevano alle chanteuse francesi, non a caso chiamate le sciantose, Dio quanta poesia in questo vocabolo partenopeo, di Adele Tirante, già attrice, commediografa, cantante sotto altro nome e con altri progetti. Adèl Tirant, questo il suo nome d’arte oggi, ha dato alle stampe un album che potrebbe essere identificato come un Nabucodonosor, oggi, a zigzagare tra i cattivi dentro la Matrice, Adele e i suoi eroi.

Un album in cui la nostra, perché Adèl Tirant è nostra, ribadiamolo, esattamente come i Preraffaelliti, prova a fare i conti con un’idea di bellezza che fa i conti con il passato e con le radici, la forma canzone del nostro cantautorato, nello specifico, usando però le conoscenze di oggi. Una sorta di summa di quello che la nostra musica d’autore ha fatto nei decenni passati, diciamo fino a quando la forma canzone sembra essere rimasta incastrata dentro un brutto film, sgranato e sciatto. Quindi i nostri anni Sessanta, periodo in cui c’era ancora una ipotesi fulgida di futuro, almeno in Italia, ma anche del sano blues, con un occhio attento verso le sue radici, la Sicilia, il suo folk, come un recente spettacolo dedicato a Rosa Balestrieri per altro ulteriormente dimostra.

E in questo, non facciamoci mancare nulla, una inconsapevole, credo, gemellanza con Amanda Palmer, forse più rockettara di quanto Adel non sia, ma altrettanto attenta al corpo e alla femminilità, ancora una volta, come per i Preraffaelliti, punto di partenza per buona parte delle narrazioni canore di Adèl. Voce, quindi, ma anche corpo, sinuosità, umori, pelle, ossa, curve, tutto quanto. Qualcosa di alto, che non finge di essere basso, sinceramente colto, il che, non credo sia necessario spiegarlo, non significa affatto pesante, difficile. Nel momento in cui ci hanno inculcato che essere intellettuali, professoroni, scrittori è qualcosa da tenere nascosto, pena l’essere accusati di essere privilegiati fuori dal mondo, è arrivato il momento di rivendicare la propria cultura, anche a rischio di dover dire che il pop fa cagare pur non pensandolo.

Adèl Tirant è la nostra Lizzie Siddal che diventa una rockstar nei quadri dei Preraffaelliti. Ma è anche la nostra Gabriel Dante Rossetti che passeggia per Holborn con un pavone al guinzaglio. Il nostro David Foster Wallace che insegue una nuova sincerità lontano dal postmoderno. La nostra Amanda Palmer che brandisce con lo stesso coraggio e la stessa minacciosa bellezza una spada e i peli pubici nella copertina del suo ultimo capolavoro There Will Be No Intermission. La nostra Neo alla guida della Nabucodonosor, Morpheus permettendo. Il mio idolo personale indiscusso del momento. Il nostro punto di partenza per scrivere il manifesto di una nuova forma di resistenza al brutto.