3 From Hell: il nuovo film di Rob Zombie, leader degli White Zombie e regista cinematografico di grande successo

Cinque minuti del film sembrano una perfetta fotografia dell'oggi, a beneficio dei posteri ma anche nostro, che almeno di un po' di bellezza possiamo ancora una volta nutrirci


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Credo che dire “ognuno ha il proprio luogo ideale” non abbia bisogno di troppe spiegazioni. Uno lo dice, ognuno ha il proprio luogo ideale, e tac, subito tutti capiscono di cosa si sta parlando. Come se uno dicesse “casa”. Anche se il luogo ideale non è necessariamente casa, anzi, non è quasi mai casa, credo. Del resto la parola ideale non si trova in quel modo di dire così, per caso. Punta a qualcosa di alto, spesso di irrealizabile. O quantomeno di non quotidiano. Io nella vita scrivo, e scrivo spesso di musica. Ma il mio luogo ideale, quello che, appunto, idealizzo, pur essendoci stato, è più legato al mio essere scrittore che al mio essere critico musicale, sempre che esista una netta separazione tra questi miei due ruoli. Il mio luogo ideale si trova in California, qualche centinaio di chilometri sopra Los Angeles, a non troppi da San Francisco. Si chiama Big Sur, e se questo nome non vi ha immediatamente evocato qualcosa, temo, siamo di fronte a un serio problema. Un serio problema vostro, chiaramente, non mio. Perché Big Sur non è solo e tanto un mio luogo ideale, anzi, il mio luogo ideale, ma è anche un luogo cui è legata parte della storia della letteratura americana della seconda metà del novecento. Ora, lo so, già dire letteratura americana del novecento impressiona, figuriamoci se è verosimile che un singolo luogo, un singolo luogo che in realtà non è neanche un luogo vero e proprio, nel senso che non è un paese, una città, ma una zona, una piccola porzione di territorio lungo la costa occidentale degli Stati Uniti, figuriamoci se è verosimile che un singolo luogo possa essere un luogo cui è legata parte della letteratura americana della seconda metà del novecento. Diciamo, a voler essere meno imprecisi, che intorno a Big Sur hanno ruotato alcuni scrittori che hanno lasciato un segno importante nella suddetta storia, e di conseguenza anche in quella occidentale. Tre, quattro nomi in modo particolare, non esattamente tutti della stessa portata, ma, parlo per me, non per questo meno degni di essere indicati. Il primo nome è quello di Henry Miller, che a Big Sur è vissuto, che a Big Sur ha anche ambientato un suo romanzo, Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch, e a cui è dedicata una biblioteca che si trova in quella piccola porzione di costa sottostante San Francisco, poco più di cento chilometri tra le cittadine di San Simeon, a sud, e Carmel-by-the-sea, a nord, vero e proprio cuore pulsante di questo magnifico luogo ideale. Miller visse qui dal 1944 al 1962 e fu anche la sua presenza in questa landa isolata, dove di suo non accade mai niente, a spingere da queste parti i cosiddetti beatnik, Jack Keoruac in testa. Anche Kerouac ambientò qui un suo libro, libro che intitolò solo con il nome di questa regione, regione che per altro nel novecento diventerà un po’ più frequentata che in passato, grazie o per colpa, a voi decidere, della creazione della Highway 1, una strada panoramica che ne seguirà il margine a picco sul mare, regalando a chi volesse percorrerla in auto paesaggi davvero mozzafiato. Sempre da queste parti, ricordiamolo, una regione selvaggia, con un’aura anche vagamente new age, fuori dal tempo, ambienterà un suo romanzo anche Richard Brautigan, uno degli scrittori più snobbati dalla critica, immeritatamente. Il romanzo nella versione italiana si intitola Il Generale Immaginario, mentre in quella originale faceva A confederate General from Big Sur. A margine dalla generazione beatnik, un po’ per questioni anagrafiche, nato una quindicina di anni dopo i suoi più noti e blasonati colleghi, un po’ proprio per una faccenda di credibilità, sempre marginalizzato, nonostante il successo de la Pesca Alla Trota In America. Big Sur finisce, suo malgrado, anche dentro un libro che, parlo per me, ma anche qui non solo per me, ha segnato il mio destino, spingendomi con un bel calcio nel culo verso la scrittura, Paura e Disgusto a Las Vegas, di Hunter S. Thompson. Dr. Gonzo, come veniva chiamato colui che in effetti negli anni sessanta si inventò il gonzo journalism, insieme al di bianco vestito Tom Wolfe, visse da queste parti e ci visse perché, come racconterà nel libro in questione, da queste parti gli avevano detto si trovasse il tanto decantato Sogno Americano, quello che lui, come anche i beatnik, sempre loro, era andato a cercare a San Francisco. Ora, converrete con me, un luogo ameno, perché Big Sur è ameno, isolato, splendido e selvaggio, nonostante la Highway 1, strada panoramica piuttosto battuta da chi vuole costeggiare l’oceano Pacifico, lì sotto, un luogo ameno come Big Sur in cui si trovino a vivere, nel corso di un paio di decenni, per altro, mostri sacri quali Henry Miller, Jack Kerouac, Richard Brautigan e Hunter S. Thompson, e che negli anni sia stato visitato da un altro manipolo di scrittori, tutti i beatnik, sicuramente, ma non solo, non può che essere qualcosa di più di un semplice luogo paradisiaco a pochi minuti da Frisco. Un luogo ideale, appunto. Il mio luogo ideale. Luogo in cui non ho vissuto, anche per questo lo idealizzo, ma in cui sono passato, durante un viaggio poi finito dentro un libro che in qualche modo è diventato un piccolo cult, quel God Less America scritto con Cristina Donà poco prima che le due torri gemelle cadessero sotto l’attacco dell’11 settembre e uscito un paio d’anni dopo per Mondadori, e nel quale ho scritto un paio di pagine di quel libro, proprio per poter dire che anche io faccio parte di quella schiera lì, con quei nomi lì, povero illuso che non sono altro. Big Sur, California, neanche impossibile da raggiungere. E voi, immagino, avrete i vostri, di luoghi ideali. Che non significa i propri luoghi preferiti, perché probabilmente, mi si chiedesse questo, quale è il tuo luogo preferito, rispondere Londra, concentrandomi in modo particolare sulla parte a sud del Tamigi, o Manchester, o al limite Newcastle, comunque lì, in Inghilterra. Ma Big Sur è il mio luogo ideale, quello, appunto, che idealizzo. Perché sto scrivendo di luoghi ideali qui, dove solitamente mi occupo di musica? Perché si stanno avvicinando le vacanze, anzi, tecnicamente per qualcuno le vacanze saranno già arrivate, e forse addirittura già finite. Forse sarebbe più corretto dire le ferie, perché magari non tutti andranno altrove da dove vivono, e ci sarà anche chi non andrà neanche in ferie, perché magari non lavora, ma fingere che questo non sia la parte dell’anno in cui la maggior parte degli italiani vanno in vacanza non farà di me uno scrittore migliore, forse farebbe di me uno scrittore più ipocrita. Luoghi ideali e vacanze, quindi. Ma ancora non ho spiegato il nesso. Lo faccio ora. Se penso a un luogo ideale, l’ho detto, mi viene in mente una landa selvaggia, da percorrere in auto. Non è un caso che due dei quattro scrittori che ho citato sopra abbiano ambientato in auto le loro opere più note, On The Road e Paura e Delirio a Las Vegas. L’idea di viaggio e di viaggio in auto è a lungo stata una icona della letteratura americana, non solo di quella finita nei libri, ma anche dentro le canzoni. Credo che non sia necessario citare, che so?, Bruce Springsteen o Tom Petty, o il serbatoio vuoto di Jackson Browne. Il rock su strada è stato per certi versi un vero e proprio genere letterario, a se stante. Bene, in vista delle vacanze ho deciso di regalarvi una chicca, chicca che magari conoscete, come magari conoscevate tutto quello che ho scritto fin qui. In caso chiedo scusa, siamo anime gemelle, vediamoci al bar e prendiamoci una birra come vecchi amici. Altrimenti continuate a leggere, che arriviamo al punto. Esiste un artista che stimo molto, poliedrico, capace di passare agilmente dalla scrittura di canzoni, e dall’interpretazione di canzoni, alla scrittura e direzione di film. Un artista che ha fatto della propria maschera una icona, e che dietro quella maschera ha provato, riuscendoci, a raccontare il lato oscuro della Luna, il cuore nero dell’America bianca, in una parola il Male. Parlo di Rob Zombie, prima leader degli White Zombie, poi attivo anche come solista e regista cinematografico, in campo horror, di grande successo. Proprio la scena finale di uno dei suoi film da regista è la chicca di cui volevo parlarvi, e per parlarvi della quale sono partito dai miei luoghi ideali, e da Big Sur. Il film, sequel de La Casa Dei 1000 Corpi, esordio alla regia del nostro, segue anche stavolta, come nel precedente, le vicende della famiglia di serial killer Firefly. In un avvicendarsi di atti cruenti, in cui i tutori della legge non appaiono mai meno malvagi degli assassini, e in cui il male ha solo sfumature diverse, si arriva a un finale che è la versione distorta e malata di Thelma e Louise. Un finale cinematograficamente perfetto, figlio anche dell’essere un musicista di Rob Zombie. La scena, e qui arriviamo al viaggio, al viaggio in auto, e ai paesaggi americani, si svolge in auto. A bordo ci sono i padre, fratello e sorella Firefly, gli unici sopravvissuti a una serie di sparatorie, incendi, colpi di pistola come di accetta. Alla guida c’è Otis, che in realtà non è esattamente un membro della famiglia, ma più un fratellastro acquisito. Dietro, feriti gravemente, Baby, interpretata dalla bella e brava Sheri Moon Zombie, moglie di Rob, e suo padre Capitano Spaulding. I tre si muovono a bordo di questa tipica auto americana, non chiedetemi il modello, non fa per me, e la colonna sonora è Free Bird dei Lynyrd Skynyrd, credo di poter dire senza rischio di smentita una delle più belle cavalcate rock mai piovuta su questo pianeta. La canzone e l’auto si muovono di concerto. Più la musica si fa incalzante, più è chiaro che l’auto coi tre Firefly sta andando incontro a qualcosa di davvero brutto. Quando ormai è arrivato il momento in cui le chitarre si inseguono in quegli assoli che, diciamolo apertamente, andrebbero preservati come patrimonio dell’umanità, sorte che a mio avviso meriterebbe anche l’opera intera di Rob Zombie, qui lo dico e qui lo confermo, ecco che vediamo che tipo di finale sarà questo, il finale dei reietti del diavolo. L’auto si ferma, infatti, non prima che Otis abbia svegliato i due parenti feriti, nei sedili di dietro, e non prima di aver dato loro pistola, a Baby, e fucile, al Capitano Spaulding. L’auto si ferma e, esattamente come nel finale di Thelma e Louise, quando con la polizia alle spalle, capitanata da un ancora non famosissimo Harvey Keitel, Geena Davies e Susan Sarandon decidono di inseguire la propria libertà lanciandosi in un burrone, dopo essersela conquistata frame dopo frame per tutto il film, quella libertà. Esattamente come in Thelma e Louise, qui, in La casa del diavolo, i tre Firefly, la polizia di fronte in assetto di guerra, le auto a fare da riparo e i fucili impugnati in mano, decidono di andarsi a prendere la propria definitiva libertà attaccandoli a colpi di fucile e pistola. Nel mentre Steve Gaines, Gary Rossington e Allen Collins si inseguono indiavolate in quel perfetto crescendo rock che è la coda lunghissima e acida di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. Inutile dire che la scena, la trovate tranquillamente su YouTube cercando Finale di La Casa Del Diavolo, non sia dei migliori. Anche se, qui sta la magia del cinema, e la genialità di uno come Rob Zombie, da sempre abituato a lavorare di talento e di fantasia, oltre che di mestiere, a breve è prevista l’uscita della terza puntata della fortunata saga, dal sintomatico titolo 3 From Hell, Tre dall’Inferno. Come siamo arrivati dalla pace new age di Big Sur ai Firefly che finiscono uccisi mentre puntano contro un posto di blocco della polizia, Free Bird dei Lynyrd Skynyrd a fare da sottofondo, o forse si dovrebbe dire da motore, non saprei esattamente dirlo. Ma in tempi bui come questi, sia che si parli di musica, sia, tanto più, che si parli di sociale, questi scarsi cinque minuti di cinema sembrano una perfetta fotografia dell’oggi, a beneficio dei posteri ma anche nostro, che almeno di un po’ di bellezza possiamo ancora una volta nutrirci.