Good Girls su Netflix non sarà una “Breaking Bad femminista”, ma ci ricorda brillantemente che le donne sono piene di risorse (recensione)

La serie di Jenna Bans non ha la pretesa di essere perfetta. Si limita a far bene il suo lavoro con un cast che meriterebbe gli onori della cronaca

Beth, Annie e Ruby in Good Girls su Netflix

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Poche serie tv hanno un titolo fuorviante come Good Girls su Netflix. Influenzati da un’infinità di filmetti in cui le girls sono etichettate come bad, beautiful, golden o funny, potremmo facilmente credere che questa sia l’ennesima commedia in cui un gruppo di amiche scollega il cervello e si dà alla pazza gioia.

Invece Good Girls su Netflix è qualcosa di completamente diverso, un unicum a metà strada fra una serie crime e una dark comedy. In entrambe le stagioni – la terza è stata appena commissionata – seguiamo da vicino le vite di tre donne di Detroit. Beth (Christina Hendricks) è una casalinga super efficiente, moglie e madre di quattro bambini. Annie (Mae Whitman) è la sua sorella minore, una ragazza single problematica con una figlia adolescente. Ruby (Retta) è la migliore amica di Beth, dura lavoratrice e angelo del focolare, sposata e madre di due figli. Ciascuna di esse affronta una vita difficile e costellata di ostacoli.

Le ristrettezze economiche diventano presto così insormontabili da convincerle a rapinare un supermercato. L’idea sarebbe darsi a un colpo una tantum per ripagare i debiti e finanziare alcune spese extra, e poi tornare alla normalità.

Peccato però che le cose non seguano esattamente questo programma. Le tre si ritrovano invece intrappolate nella rete della criminalità locale, gestita dalla gang di Rio (Manny Montana), e sono costrette a sottostare agli ordini dell’uomo per estinguere i nuovi debiti.

Fin dal suo debutto su NBC Good Girls è stata definita una sorta di Breaking Bad più soft e femminista, ma il paragone non è così calzante. La serie creata da Jenna Bans non ha un vero capostipite televisivo, perché bilancia comedy e drama in modi e quantità uniche. Lo spunto narrativo delle brave persone convinte di poter oltrepassare i limiti una sola volta e bloccate invece in un loop di azioni illegali e amorali non è nuova e spesso nemmeno longeva.

Good Girls su Netflix riesce però a rendersi necessaria anche oltre il limite prevedibile di una sola stagione, rinnovandosi e arricchendosi. Non possiamo aspettarci un crime drama sempre perfettamente credibile, dobbiamo ammetterlo, ma non è questo che Good Girls cerca di essere.

L’idea di sé che vuole trasmettere è quella di un prodotto intelligente e accessibile, godibile senza troppi se e ma. E ci riesce più che bene, perché ci soddisfa ma allo stesso tempo non ci accontenta, e ci porta a voler scoprire sempre di più. Questa caratteristica della serie, badiamo bene, non è un difetto. In un’epoca di trame convolute, teorie elaborate, investimenti multimilionari per costumi ed effetti speciali, la linearità di Good Girls è un vero piacere. Una benedizione, anzi.

La sospensione dell’incredulità ci aiuta quindi a soprassedere su alcuni punti deboli della trama e concentrarci invece sui principali pilastri della serie, e cioè le tre interpreti protagoniste. Christina Hendricks fa suo con forza e convinzione il ruolo di Beth, una donna stanca di essere solo moglie e madre.

Il desiderio sempre meno trascurabile di una vita diversa, carica di adrenalina e delle più svariate emozioni le permettono di mettere in mostra una volontà di ferro e una capacità di organizzazione da perfetta leader. Come nella maggior parte dei casi, anche in lei scoprire di saper fare bene qualcosa scatena un appetito insaziabile e un doloroso conflitto interiore.

Mae Whitman dà invece vita ad Annie, una giovane donna insofferente alle regole, ai vincoli, ai legami, a qualsiasi forma di routine. La sua inarrestabile tendenza a creare il caos intorno a sé e combinare guai ne fa quasi una caricatura di essere umano funzionale, ma non arriviamo mai a pensare che abbia qualcosa che non va. Bontà, tenerezza e attaccamento emergono costantemente nel rapporto con la figlia Sadie (Izzy Stannard) e nei momenti di difficoltà della sorella e dell’amica.

Retta, infine, fa un fantastico lavoro con Ruby. Il suo splendido personaggio rovescia in maniera pressoché completa il cliché della big mama afroamericana gesticolante e sopra le righe. Ruby è infatti una donna seria e riflessiva, concentrata sulle necessità della sua famiglia e dilaniata da irrisolvibili dilemmi interiori.

Lo humour secco della donna e la profonda abnegazione della moglie-e-madre emergono splendidamente nel rapporto col marito Stan (Reno Wilson), al quale desidera risparmiare i dettagli della nuova vita ma con cui nascono inevitabili conflitti.

Le tre sono eccezionali, insomma, ma anche il cast di supporto dà un ottimo contributo. Matthew Lillard è particolarmente brillante nel ruolo di Dean, marito di Beth. L’iniziale figura di piacione indulgente lascia presto spazio a quella ben più complicata di uomo annientato dalla propria piccolezza e demascolinizzato dall’energia di una moglie intraprendente e incontenibile. Più che azzeccata anche la scelta di Manny Montana per il ruolo di Rio, criminale senza scrupoli ma irresistibilmente affascinante, e non solo per Beth.

Se il dubbio di molti era che Good Girls su Netflix non potesse reggere per più di un’annata, la seconda stagione dimostra esattamente il contrario. Qui lo humour si fa più sottile e scarno e l’atmosfera si carica di tensione. L’obiettivo non è più soltanto quello di osservare le conseguenze delle cattive azioni, ma anche esplorare i crescenti conflitti interiori delle protagoniste.

Il tentativo di indirizzare la vita lungo un binario di moralità e l’amara constatazione di come proprio le azioni passate rendano questo auspicio impossibile è uno dei motivi prevalenti della serie. Le protagoniste provano a lasciarsi il passato alle spalle e a riabbracciare la normalità della vita pre-crimini, ma ogni tentativo si rivela vano. Hanno sempre bisogno di soldi, di emozioni, di scopi, e ci sono troppe questioni irrisolte perché possano semplicemente voltare pagina.

Il meglio della seconda stagione di Good Girls su Netflix si avverte tutto a partire da questo inevitabile scontro. Superata la necessità di presentarsi al pubblico, la serie può soffermarsi sul cortocircuito della moralità e sulle conseguenze di ambizioni dal forte significato tangibile e simbolico. Come dimostra in particolare la storyline di Beth, desiderare una vita diversa da quella che si è vissuta fino a un certo momento e provare a ottenerla – e riuscirci con brillanti risultati, potremmo aggiungere – ha spesso delle conseguenze molto pesanti.

Celebrare Good Girls su Netflix senza cedere agli spoiler è possibile – lo abbiamo appena fatto –, ma non può trasmettere il piacere e la soddisfazione di lasciarsi conquistare da ogni singolo episodio. Né NBC né Netflix hanno mai destinato grossi sforzi di marketing a questo piccolo gioiello, e non riusciamo a capire perché. Benediciamo lo streaming, però, e ringraziamo che il binge watching di Good Girls sia a portata di clic.