L’inno di Mameli? Forse è davvero tempo di togliercelo di torno

Per inno nazionale abbiamo un canto retorico, aspro e criptico, difficile da capire, da memorizzare e sospettato di plagio. Le alternative sarebbero molte, e tutte sicuramente migliori.


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E’ appena passata la festa del 2 giugno, data cruciale nella storia del nostro Paese. L’inno di Mameli, l’inno scelto per l’Italia repubblicana, si è sentito ovunque, accompagnato da quella giusta solennità, ma anche da qualche dubbio che inevitabilmente affiora in queste circostanze. Possibile che una marcia con un testo così ostico, così poco musicale, difficile da memorizzare, e peraltro intriso di riferimenti storico-letterari tanto lontani dalla nostra sensibilità, debba essere scelto come quello che meglio ci rappresenta? Possibile che debba risuonarci nelle orecchie ed essere cantato “in automatico” senza che si presti attenzione a ciò che realmente significa? In occasione dei grandi tornei calcistici, i giocatori della nostra nazionale sono stati spesso oggetto di critiche (o di scherno), per il fatto di vivere l’esecuzione dell’inno con la mano sul cuore ma con la bocca rigorosamente chiusa, per nascondere il fatto di non conoscere le parole o per evitare di sbagliarle in “mondovisione”. In realtà non è del tutto lecito infierire sui calciatori (ma nemmeno sul pubblico, sui militari, sulle categorie di cittadini che a turno si cimentano) per questa scarsa familiarità con l’inno. Sappiamo che imparare una poesia a memoria senza poterne capire il significato è quanto mai difficile. Una cosa è cantare “Va pensiero sull’ali dorate…”, altra cosa è cantare “…dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la vittoria le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò…”. Quanti conoscono il senso di queste parole? E quanti le sentono appropriate al contesto in cui vengono solennemente cantate? Non si può pretendere che un giocatore di calcio, per quanto grintoso, possa davvero “stringersi a coorte” ed esser “pronto alla morte”… E meno male che dell’inno si cantano solo le prime strofe, perché andando avanti si trovano passaggi poco esaltanti dal punto di vista della dignità nazionale e persino dell’orgoglio sportivo, vedi quello che dice: “da secoli, calpesti e derisi…”. Il simbolo del riscatto nazionale è dunque Scipione l’Africano, vincitore contro i Cartaginesi, una vittoria accompagnata da un rituale umiliante, quello che obbliga la donna vinta a porgere la chioma, a tagliarsi cioè i capelli perdendo lo status di donna libera e divenendo una “schiava di Roma”. Schiava per volontà di Dio stesso, senza peraltro spiegare quale Dio avrebbe voluto la schiavitù della donna sconfitta (non certo quello cristiano, visto che la vicenda di Scipione risale a circa duecento anni prima della nascita di Cristo).

Mi è capitato di leggere un articolo interessante di Enrica Bonaccorti, che tempo fa propose – come già successo in altri Paesi Europei – di cambiare almeno il testo dell’inno, che dovrebbe in realtà chiamarsi “L’inno di Novaro”, con il nome di colui che scrisse la musica. Come lei fa notare, non si parla de L’Aida di Ghislanzoni, che è l’autore dei testi di quell’opera lirica, ma dell’Aida di Verdi, che ne è il compositore; e non si capisce perché, in questo caso, il canto debba essere identificato con l’autore del testo e non con l’artista che lo ha musicato. Peraltro, la stessa attribuzione a Mameli di questo testo è cosa alquanto controversa. Alcune ricerche sostengono che questo, pieno di riferimenti storici, fosse stato scritto dal priore di un convento presso il quale il giovane Goffredo si era nascosto. È infatti difficile pensare che il giovane patriota, che scriveva alla madre “Sono arrivato morto di sogno, ma io qui me la passo benissimo, mangio per quattro, dormo, non faccio nulla, penso meno e questo è l’ideale del mio Paradiso, spero che voialtri farete altrettanto…”, possa essere lo stesso poeta storiografo che scrive “il sangue d’Italia e il sangue polacco bevè col cosacco ma il cor le bruciò”. Sembra che proprio il musicista Novaro sia stato il primo a dubitare che un testo così aulico e pomposo potesse essere stato scritto da quel ragazzo che lo aveva presentato come opera del proprio ingegno. Insomma, per inno nazionale abbiamo un canto retorico, aspro e criptico. Difficile da capire e da memorizzare, e prima di tutto viziato da un sospetto di plagio. Tenerselo avrebbe un senso se nel panorama poetico e musicale italiano non ci fosse altra scelta, o se non fosse in alcun modo possibile commissionarlo oggi a qualche eccellente artista. Mi sembra però che non sia questo il caso dell’Italia, un Paese che avrebbe ben altre risorse alle quali attingere.