Dolor y Gloria, Pedro Almodóvar alla ricerca del tempo perduto (recensione)

Presentato a Cannes, è il film della maturità di Almodóvar. Un bilancio esistenziale condotto attraverso il personaggio d’un regista, interpretato da un magnifico Banderas, che è quasi un doppio dell’autore. Un racconto che s’inabissa nella memoria, malinconico e sereno.

Dolor y Gloria

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È in questi giorni in concorso al Festival di Cannes Dolor y Gloria, tra i candidati più accreditati alla Palma d’Oro. E siamo di fronte al titolo forse più personale e maturo di Pedro Almodóvar, premiato dall’affetto del pubblico italiano, con un primo weekend da oltre un milione d’incasso.

Il protagonista è un regista omosessuale, Salvador Mallo (un Antonio Banderas alla sua prova più matura), immalinconito dagli anni e dai tantissimi acciacchi che l’hanno spinto al ritiro. L’invito a un dibattito su uno dei suoi fiammeggianti film giovanili lo porta a rivedere il suo vecchio primattore Alberto (Asier Etxeandia), con cui aveva litigato trent’anni prima. L’incontro è difficile: riaffiora l’antica ruggine e Salvador fuma per la prima volta l’eroina, offertagli dal tossicomane Alberto, diventandone in breve tempo dipendente. Questa è anche l’occasione che fa scattare in Salvador un percorso a ritroso nella memoria, ritrovando la sua infanzia di bambino poverissimo d’una famiglia costretta ad abitare in una grotta, con l’amorevole madre (da giovane Penelope Cruz), che cerca in ogni modo di dare un futuro dignitoso al figlio.

Gli aspetti scopertamente autobiografici hanno spinto a ritenere Dolor y Gloria l’ di Almodóvar. Il paragone c’entra fino a un certo punto: più che un racconto metacinematografico di cinema dentro il cinema, infatti, questa è la storia di un essere umano che fa il regista. E se nel film di Fellini il Guido Anselmi interpretato da Marcello Mastroianni è un autentico doppio del regista riminese, qui le cose sono più ingarbugliate dato che, come Almodóvar ha dichiarato in conferenza stampa a Cannes, il “tasso di autobiografia che c’è in Dolor y Gloria sul fronte dei fatti è il 40 per cento”. E per inoculare ulteriore ambiguità, Almodóvar fa esprimere al suo protagonista un profondo scetticismo verso l’autofiction, mettendo in guardia da una meccanica sovrapposizione tra personaggio e autore.

Dolor y Gloria nella filmografia del regista spagnolo ha una posizione eterodossa. Lo stile trasgressivo delle regie giovani è solo un ricordo: ma soprattutto, ed è un bene, siamo lontani dal manierismo dei suoi melodrammi più celebrati, come Tutto su mia madre o Parla con lei, nei quali i casi del destino s’intrecciavano in modo sin troppo calcolato, come quei colori scopertamente metaforici – il marchio di fabbrica del rosso –, messi lì a indicare scolasticamente abissi di passione e sofferenze che esplodevano al momento giusto sullo schermo per la commozione e il piacere troppo prevedibili dello spettatore.

In Dolor y Gloria invece, che pure ha bisogno d’un primo tempo sonnacchioso per carburare, il melodramma è volutamente raffreddato. Perché a sessanta e passa anni le emozioni non svaniscono, però per forza di cose s’ammorbidiscono, e Almodóvar esplicita il cambio di prospettiva mostrando in apertura uno schermo rosso che però stinge subito, lasciando la scena a colori più mesti e ordinari, ma più sfaccettati. Quel che importa davvero al protagonista, che lotta con dipendenze reali e metaforiche – “La dipendenza”, infatti, si chiama un suo racconto autobiografico sepolto tra i file del computer e destinato a riemergere – è riannodare il presente col passato, per fare pace con sé stesso, la madre, Alberto e altre figure che affiorano da pagine considerate chiuse e che invece si riaprono come ricordi richiamati in vita da dettagli insignificanti del quotidiano – ed è persino banale parlare di proustiane intermittenze del cuore.

In questo percorso di scavo nella memoria il cinema riveste un ruolo importante. Ma non c’è nessuna cinefilia esibita, tantomeno richiami scolastici come l’Eva contro Eva che sbucava a comando in Tutto su mia madre. Questo perché il cinema non può essere ridotto a un giochino di citazioni: al contrario, Salvador ci tiene a dire che si tratta di un lavoro faticosissimo, che lui è stato costretto ad abbandonare a malincuore perché il fisico martoriato non gli consentiva più di farlo.

Ma un’esistenza senza film è deprimente, priva di passioni, una quasi morte. Allora solo inabissandosi nel tempo perduto Salvador può ritrovare il senso della propria storia, alla ricerca di nuove motivazioni. E riandare al passato è possibile solo se si è disposti a confrontarsi con memorie dolorose, assenze, lutti. Per questo, sebbene la cornice sia tutto sommato ottimista, Dolor y Gloria è un film profondamente malinconico, consapevole del fatto che la felicità è il risultato d’un corpo a corpo con brandelli di vita frammisti a brandelli di morte – tutte le perdite accumulate – che conducono a quel titolo che mescola “dolore e gloria”, gli opposti necessariamente compresenti di cui è fatta la trama dell’esistenza. Sono due opposti anche vita e finzione, vita e cinema: e anche in questo caso, il segreto della felicità – e d’una conquistata serenità da cui ripartire – è possibile solo nella dialettica tra i due, nel punto esatto in cui vita reale e vita recitata si riallineano fino a diventare una cosa sola. Esattamente quel che accade alla fine di questo commovente, onesto film bilancio.