I figli del fiume giallo, un disilluso ritratto della Cina di oggi tra noir e melodramma

Attraverso la storia lunga vent'anni di due amanti, una donna e un boss criminale, Jia Zhang-ke racconta il deludente corso della Cina contemporanea. Una requisitoria dura nell'assunto ma sommessa nei toni. Un’opera che ricapitola tutto il suo cinema.

I figli del fiume giallo

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La chiave d’accesso a I figli del fiume giallo, ultima opera di uno dei più rispettati maestri del cinema contemporaneo,il regista cinese Jia Zhang-ke, è contenuta in una parola all’interno del titolo originale del film, jianghu. Letteralmente significa “fiumi e laghi”, ma è un termine con un’ampia ricchezza di significato, connesso al mondo delle arti marziali, anche usato per indicare i reietti della società e, in maniera traslata, i gruppi criminali legati alle triadi.

Ed è a questo mondo di scarti che rivolge il suo sguardo Jia Zhang-ke, in un vasto affresco sulla Cina degli ultimi vent’anni cadenzato in tre momenti, il 2001, il 2006 e il 2018, che racconta la storia di Qiao (Zhao Tao, moglie di Jia Zhang-ke) e Bin (Liao Fan), criminale in ascesa cui lei è visceralmente legata. Al punto di sacrificarsi per lui durante una rissa di strada, nella quale, sparando un colpo in aria per difenderlo, viene accusata e condannata per possesso illegale di armi.

La prima parte de I figli del fiume giallo è un racconto a tinte noir su questa comunità compattata dal suo codice criminale installata, come in altri film di Jia Zhang-ke, nella regione di provenienza del regista, lo Shanxi. Un luogo, all’altezza del 2001, che comincia a risentire delle profonde trasformazioni economiche e sociali della nuova Cina, con una fortissima crisi del settore minerario – Qiao va amorevolmente a prelevare il padre, ubriaco e disperato per aver perso come tanti il lavoro, che farnetica da una minuscola radio locale per aizzare tutti alla rivolta.

Già in partenza, dunque, il film è intinto dentro una storia sociale con cui il genere noir interagisce. La stessa cosa accade quando, fatto un salto temporale, Qiao riassapora la libertà dopo cinque anni di prigione. Il mondo che ritrova è anche peggiore di quello che ha lasciato. Bin infatti le ha preferito un’altra donna, rendendosi irreperibile. Perciò lei intraprende un lungo viaggio per trovarlo: e seguendone le tracce giunge alla provincia delle Tre Gole (altro luogo centrale del cinema di Jia Zhang-ke), dove è sorta una diga che, spazzando via antichi villaggi, costituisce il simbolo patente del corso della nuova Cina.

Nella seconda parte, quindi, è il melodramma il genere scelto per interagire con la medesima, disillusa quanto accorta riflessione marcatamente sociale, che costituisce il cuore non solo del film, quanto di tutto il cinema di Jia Zhang-ke.

La struttura tripartita de I figli del fiume giallo c’era infatti già nel precedente, bellissimo Al di là delle montagne, persino più ambizioso nel distendere il suo sguardo anche sull’immediato futuro. Più in generale il ritorno delle stesse location, la ripetizione di stilemi espressivi caratteristici – la chiave del fantastico adottata già in Still Life, con cui vinse il Leone d’Oro a Venezia –, persino il riutilizzo di vecchie sequenze qui integrate, danno a I figli del fiume giallo il sapore di un’opera riassuntiva delle forme e dei temi del cinema di Jia Zhang-ke, sfociando nella medesima sfiduciata requisitoria, però sommessa nei toni, su un paese di disorientanti trasformazioni.

Ed è lo stesso disorientamento che vive Qiao mentre si muove in una terra che le appare straniera, in cui i luoghi sono sottoposti a una vertiginosa metamorfosi – gli incongrui agglomerati urbani sviluppati in verticale – che si riverbera sulle persone, anch’esse irriconoscibili.

La contemporaneità non lascia scampo: ed è impossibile rifugiarsi nella nostalgia – che riguarda l’ultima parte del film –, ossia ritornare a casa e all’antico amore. Questo perché entrambi, sia la terra natale che l’uomo cui ha dedicato l’intera vita, non sono più gli stessi. Così al massimo si può sopravvivere, sentendo il sapore deludente e ineluttabile d’un fallimento non solo individuale.