Per i contenuti politici nella musica dobbiamo davvero affidarci ad Achille Lauro?

La politica è scomparsa dalla scena musicale, al punto che al Concertone, cioè la manifestazione nata per volontà dei sindacati nella festa dei lavoratori, di canzoni politiche non se n'è sentita quasi nessuna, perché?


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L’altro giorno ho letto un interessante articolo di Simonetta Sciandivasci, su Il Foglio, in cui sosteneva, pratico un esercizio di sintesi davvero forzato, trattandosi di un articolo lunghissimo, che al Concertone del Primo Maggio, poi giuro che non ne parlerò più, l’intervento più politico quest’anno è stato quello di Achille Lauro, che ha chiesto, dal palco, “Chiedo gentilmente a tutti di spegnere il cellulare e godersi la festa. Chiederei anche di levare i vestiti, ma sarebbe troppo”. Quindi un ragazzo “vestito di strass e paillettes, un cowboy metrosexual e però molto sexy”, Achille Lauro appunto, sarebbe, stando all’editorialista de Il Foglio, il più politico in quanto ha focalizzato in quel “spegnete tutto” il messaggio che, dice sempre la Sciandivasci, è quello che tutti noi vorremmo. Di più, Achille Lauro ha colto quel che, per dire, non ha colto Manuel Agnelli, che su quel palco ha citato Flaiano quanto Tomasi da Lampedusa, passando con agilità da un Kurt Cobain a un Lou Reed, cioè che oggi si cerca l’unione nel sollievo, non l’unione nella lotta. Ora, ho trovato molto interessante l’articolo della Sciandivasci essenzialmente perché ritengo che sia, oggi come oggi, una delle penne più stilose in circolazione, leggerla è sempre un piacere, anche quando dice cose che non condivido affatto. Anche quando scrive cose che, non le scrivesse lei, neanche mi sognerei di leggere, perché di sapere cosa ha fatto Achille Lauro su quel palco, come gesto estetico o gesto politico, non me lo sarei sognato neanche dopo una peperonata. Ma lei me lo ha spiegato bene, molto bene, pur lasciandomi esattamente come mi aveva trovato, nella convinzione che Achille Lauro sia un simpatico guascone, niente di più. Il motivo per cui, però, parlo da quel lungo articolo, che vi invito a cercare e leggere, come tutti quelli della Sciandivasci, perché l’occhio vuole la sua parte e la bellezza delle parole che cerca e trova è sempre appagante, il motivo per cui parlo da quel lungo articolo è che oggi come oggi sembra sempre più passare il concetto che far politica, in era di disconnessione e frammentazione, in epoca di social e di slogan fatti in 280 caratteri, così da poter passare su un Tweet, o meglio ancora, come meme su IG, far politica sarebbe qualcosa di intimo, anche di criptico, da fare per conto proprio in cameretta. Non parlo di Achille Lauro, ovviamente, che altrettanto ovviamente non fa affatto politica, gigioneggia, ma parlo in generale di un sentire comune che sembra spingere sempre più in questa direzione. Cosa vuoi metterti a parlare di politica, meglio raccontare una quotidianità che lanci segnali, che sia anche interpretabile come politicizzata, ma che non affronti di petto argomenti e temi riconducibili all’agone politico vero e proprio. Basti pensare ai trapper e paragonarli al rap delle posse, loro trisavoli, stando alla vulgata, e fare poi la stessa cosa con i cantautorini indie e i loro trisavoli, i cantautori degli anni Settanta. Ma basti anche vedere, e di nuovo esco dal seminato, quanto sta accadendo intorno al Salone del Libro di Torino. Sapete già tutti la storia, immagino. Al Salone del Libro sarà presente lo stand di una casa editrice vicina a CasaPound, casa editrice che non citerò, perché non voglio assolutamente far pubblicità a dei fascisti, La casa editrice in questione, ripeto, vicina a CasaPound pubblica un libro intervista al Ministro dell’Interno Matteo Salvini, presentandolo con una foto molto ducesca, il mento volitivo alzato come il Duce, e la presenza di questo stand e di questo libro hanno indotto il consulente del Salone del Libro, nonché autore e promotore culturale Christian Raimo a dimettersi dal suo ruolo di consulente. Ritiene, Raimo, impensabile che una casa editrice fascista sia accolta in seno al Salone del Libro. Questo fatto, che sto riassumendo grossolanamente, se volete potete trovare i dettagli in articoli che affrontino direttamente questo argomento, ha indotto alcuni autori a ritirare la propria partecipazione al Salone, da Wu Ming a Zero Calcare, passando per Ginzuburg o Roberto Piumini, fatto che per altro va nella direzione opposta a quella poi scelta dallo stesso Raimo, che andrà al Salone come privato cittadino e scrittore. Del Salone si è cominciato a parlare come, forse, mai prima, con tutte le posizioni e le uscite del caso. Tutti i politici stanno provando a strumentalizzarlo, e un sacco di addetti ai lavori si è sentito in dovere di dire la propria, anche se non invitato a partecipare.

Non intendo dire qui la mia a riguardo, l’ho fatto altrove e non è di questo che sto parlando, quel che però mi ha molto colpito, negativamente, è come i più abbiano confuso un invito al boicottaggio del Salone come una fuga. Qualcuno, molti, hanno infatti citato l’Aventino. Ora, boiccottare qualcosa è un gesto, politico, ben preciso. Confonderlo con un lasciare il campo a altri, come un ritirarsi all’Aventino, come uno scappare di fronte a chi si dovrebbe combattere è un errore di interpretazione anche piuttosto grave. Come, cito lo scrittore Enrico Sibilla, confondere chi sciopera con chi si prende un giorno di ferie.

Tornando alla musica, oggi la politica sembra scomparsa dalle scene. Al punto che al Concertone, cioè la manifestazione nata per volontà dei sindacati nella festa dei lavoratori, di canzoni politiche non se n’è sentita quasi nessuna. Come del resto non se ne sentono nelle Playlist su Spotify, né in quelle indie, né in quelle trap. Non se ne sentono proprio. Certo, uno può dare una legittima lettura politica all’ultima canzone di Motta, presentata all’ultimo Sanremo, Italia dove sei, come a La verità di Brunori SaS, e a parte che loro sono indie come io sono giovane, diciamo che i brani con cui la Gang, leggi al secolo i fratelli Severini da Filottrano, Marche, erano una faccenda un filo più esplicita, come quelle dei Modena City Ramblers, dei 99 Posse e via discorrendo. Intendiamoci, non sto rimpiangendo un passato di schieramenti contrapposti, non è questo il punto, ma se penso a qualcuno che fa politica in musica penso ai Dead Kennedys, non certo agli Articolo 31, ai Rage Against the Machine, non a Fulminacci, alla Gang, a Massimo Priviero, a Alessio Lega, a chi ha deciso che le storie che avrebbe raccontato nelle canzoni avessero un chiaro messaggio politico, da non confondersi con un “canto la gioia di vivere, quindi faccio politica”.

Oggi, forse, fare politica in Italia non ha molto senso, sembrerebbe guardando chi di politica ci vive. Perché non è più una faccenda di valori contrapposti, ma più di followers e haters, come nel resto della vita. Ma mi piacerebbe davvero tanto, è un auspicio più che una reale possibilità, venisse fuori una qualche realtà capace di veicolare messaggi chiari, decifrabili al primo ascolto, non ambigui. Mi piacerebbe che avessimo anche noi i nostri Dead Kennedys, o il nostro Tom Morello che alza la chitarra con su scritto Fuck Trump. Qualche scrittore, pochi ma buoni, lo sta a suo modo facendo, e il nome di Zero Calcare, molto amato anche dalle nuove generazioni, è forse quanto di più vicino a quelle realtà si possa immaginare. Ma la musica è un medium potentissimo e tutto questo oggi manca. C’è tanto “uniti nel sollievo”, niente “uniti nella lotta”. Ecco, mi piacerebbe un po’ di sana lotta, per dirla con gli Assalti Frontali “Un po’ di sani scontri fanno sempre bene”, e a sentirlo oggi fa quasi venire la saudade, come fossimo Edmundo durante il carnevale di Rio. C’è qualcuno che, come Woody Guthrie, scriva con un pennarello “Questa chitarra ammazza i fascisti”? Non è una domanda retorica, questa. Se ci sei batti un colpo.