L’incredibile storia di Hicham Ben’mbarek a Milano per 24H Europe, dal Marocco al cuore nuovo fino al marchio Benheart: “L’Unione fa la forza”

L'intervista a Hicham Ben'mbarek a Milano per 24H Europe, la sua storia di integrazione e rinascita


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Col suo perfetto italiano dal vago accento toscano, è un esempio perfetto non solo di integrazione, ma come lo definisce lui stesso di “riscatto”. Hicham Ben’mbarek, stilista e imprenditore nel settore della moda e dell’artigianato, ha partecipato a Milano alla presentazione del documentario 24H Europe – The next generation, che racconta 24 ore della vita di 60 giovani europei in 26 diversi paesi ripresi in contemporanea per un giorno intero. Invitato al Palazzo del Cinema Anteo per raccontare la sua storia personale che ha dell’incredibile, Hicham ha rilanciato la sua sfida per un’Europa di ponti e non di muri.

Quel ragazzo che oggi ha 37 anni e vive a Firenze, affermato designer di abiti ed oggetti artigianali in pelle di alta qualità italiana, è arrivato in Italia su uno dei barconi oggi diventati simbolo della strage di migranti nel Mediterraneo. Lui al mare è sopravvissuto, ma il suo cuore si è fermato poco più di vent’anni dopo dopo mentre giocava a calcio: a permettergli di tornare in vita è stato un trapianto, che ha segnato un nuovo inizio per Hicham (non a caso il marchio che ha fondato si chiama Benheart, il cuore di Ben).

All’epoca, nel 1988, il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa non aveva ancora assunto le dimensioni odierne, ma nella sua storia si potranno identificare tanti migranti che arrivano nel Vecchio Continente col sogno di costruire qui il loro futuro.

Abbiamo intercettato Hicham durante la presentazione di 24H Europe, il progetto di ARTE diretto da Vassili Silovic, che ha debuttato a Milano e in altre capitali europee il 4 maggio e sarà disponibile per i due mesi successivi gratuitamente sul sito ARTE Italia.

La tua storia è un esempio di perfetta integrazione, ti va di raccontarla?

Certo: sono nato in Marocco, sono arrivato in Italia su un barcone con mia mamma a sei anni, nel 1988. Caso ha voluto che sul mio primo permesso di soggiorno ci fosse segnato come primo ingresso in Italia il 1° agosto dell’88 e proprio il 1° agosto di qualche anno dopo, nel 2011 ho ricevuto un cuore in dono per poter vivere ancora, sette mesi dopo un infarto che ho subito su un campo da calcio. Con questo cuore di un ragazzo cristiano sono rinato: io che sono musulmano, nato in Marocco, sono rinato in Italia con un cuore italiano di un ragazzo cristiano. Dopodiché ho realizzato col mio coraggio un’azienda di moda che oggi conta 35 dipendenti interni, 250 collaboratori, 14 negozi tra con sedi anche a Tokyo, Arabia Saudita, Strasburgo e prossimamente a Los Angeles e 9 negozi in Italia.

Quanto è stato difficile diventare un cittadino italiano?

Ho fatto il percorso standard: dopo 10 anni di residenza in Italia io e la mia famiglia l’abbiamo ricevuta. Le nuove leggi hanno fatto in modo che i tempi dell’accettazione della domanda si allungassero da due a quattro anni, quindi l’attesa diventa di 14 anni, ma non credo sia un limite perché si hanno gli stessi diritti anche avendo il permesso di soggiorno, eccetto quando devi viaggiare in quei paesi in cui richiedono il visto, se non sei cittadino italiano è molto complicato.

Sei cresciuto a Firenze e parli un eccellente italiano: che difficoltà ma anche quali aiuti hai trovato nel tuo processo di integrazione?

Quando sono arrivato nell’88 e fino alla fine degli anni Novanta eravamo in pochi: nella mia classe c’eravamo solo io e un’altra ragazza. C’era curiosità nei nostri confronti, i compagni di classe ci aiutavano dandoci dei vestiti, ci portavano al mare coi loro genitori. Grande merito avevano le maestre, creavano gruppo, noi le rispettavamo molto, mentre oggi le professoresse sono più giovani, meno formate e c’è meno timore nei loro confronti. Oggi il mondo si è globalizzato ed è diverso rispetto a quando sono arrivato. Certo ho subito anch’io discriminazioni: mi è capitato che sull’autobus qualcuno stringesse la borsa a sé pensando che potessi rubargliela, ma questo pregiudizio per me è diventata voglia di rivalsa, di dimostrare che uno straniero non è un pericolo ma può realizzare qualcosa di grande.

Cosa pensi di questa Europa che alza sempre più muri, in cui molti Stati decidono di chiudere le frontiere a migranti e rifugiati?

Penso che abbiamo iniziato ad abbattere i muri 30 anni fa e li stiamo ricostruendo nel 2019: oggi abbiamo innescato nella mente delle persone l’idea che i loro problemi sono colpa di qualcun altro, questo ci deve far paura. Ma oggi a Milano non ho parlato di paura, bensì di coraggio: la gente deve avere il coraggio di essere generosa ed aiutare gli altri, perché oggi purtroppo chi ha il coraggio di aiutare gli altri viene insultato con l’aggettivo “buonista”. Una volta per insultare qualcuno gli si dava del razzista, oggi è la generosità ad essere insultata. Se scrivi sui social che vuoi aiutare qualcuno ti rispondono “portatelo a casa tua”. Ma noto che spesso queste persone sono dei fannulloni che non lavorano e non hanno una vita propria, e si sentono dei campioni solo facendo i bulli con gli altri, mentre chi ha una vita piena e realizzata non esprime egoismo contro i più deboli.

Cosa diresti ad un tuo coetaneo, un ragazzo della tua età, che magari è scettico nei confronti dell’Europa, che non crede nel valore di un’identità europea?

Gli direi di prendere uno stuzzichino e spezzarlo: lo farà in un secondo. E poi di prenderne 20 e unirli insieme: spezzarli sarà impossibile. L’unione non crea mai problemi, fa soltanto la forza. Abbiamo bisogno di un’Europa più unita per costruire un futuro migliore per i nostri figli.