Dumbo, la versione live action di Tim Burton del classico Disney è un film a due facce (recensione)

Un film che è più d'un remake. Da un lato favoletta con lieto fine. Dall'altro fiaba nera sulla natura dello spettacolo cinematografico. Insieme affascinante e sinistro. Come l'ambiguo impresario, creatore d'un paese dei balocchi che ricorda in modo preoccupante Disneyland.

Dumbo

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Era scritto nel destino che Tim Burton incontrasse Dumbo, l’elefantino che degli emarginati ed eccentrici che popolano il suo cinema è un simbolo naturale. E dunque ecco, dopo Cenerentola, Il libro della giungla, La bella e la bestia e prima degli attesi Aladdin e Il re leone, la sua personale versione live action d’un classico Disney.

L’operazione si preannunciava complessa, perché il Dumbo del 1941, realizzato in economia in anni di guerra e di crisi, aveva una durata esigua (64 minuti) e una storia di lineare essenzialità. Difficile perciò immaginare un semplice remake: cosa che comunque non è mai stata nelle corde di Burton, che già con Il pianeta delle scimmie e La fabbrica del cioccolato aveva piuttosto realizzato delle riscritture. Così, col supporto della sceneggiatura di Ehren Kruger, il Dumbo di Tim Burton innesta i temi portanti del cartoon, la diversità dell’elefantino con le orecchie giganti e l’allontanamento della madre cui sogna di ricongiungersi, all’interno di una vicenda di profilo più ampio.

La storia parte dal ritorno al circo Medici di Holt (Colin Farrell), veterano della Prima guerra mondiale che ha perso un braccio e la moglie, rimasto solo ad accudire i figli Milly e Joe (Nico Parker e Finlay Hobbie). Impossibilitato a riprendere il vecchio numero da cavallerizzo, Holt viene destinato da Max (Danny DeVito), impresario del circo, ad accudire gli elefanti, tra i quali arriva un nuovo nato, Dumbo, di cui dopo poco si scopre la straordinaria capacotà di volare grazie alla sue gigantesche orecchie.

In breve diventa un’attrazione: ed ecco che, accompagnato dalla bella trapezista Colette (Eva Green), si presenta Mr. Vandevere (Michael Keaton), ambizioso industriale dello spettacolo, creatore d’un gigantesco parco dei divertimenti, Dreamland, del quale Dumbo costituirà il numero principale, utile ad aprirgli le porte dei finanziamenti del banchiere Remington (Alan Arkin). Vandevere rileva il circo dell’ingenuo Max, promettendogli mari e monti, ma i suoi scopi sono sospetti. Holt, Colette e i bambini dovranno intervenire per aiutare il tenero elefantino volante.

Il Dumbo di Tim Burton rispetta l’originale, perché prende il tema della diversità e lo moltiplica, dato che gli emarginati sono più d’uno: Holt, traumatizzato dalla guerra, vedovo e menomato; i figli orfani di madre; e discriminati sono per definizione i fenomeni da baraccone, sirene, giganti di colore, incantatori di serpenti, che i “normali” vedono come stranianti creature antropomorfe e non esseri umani. Il tema viene però anche diluito, perché l’eccezionalità di Dumbo, che non è nemmeno più il protagonista, viene subito scoperta e ricondotta all’ordine. Che è quello dello sfruttamento delle sue capacità da parte dell’avido Vandevere.

Il film ha momenti di notevole fascino visivo: Burton ritrae il volo di Dumbo come qualcosa di autenticamente fiabesco, una eccezionale, miracolistica rottura delle leggi di natura. Ed è inventivo il modo in cui reinterpreta la celebre sequenza psichedelica delle allucinazioni di Dumbo ubriaco, trasformata in uno spettacolo di bolle di sapone cui l’elefantino assiste ad occhi sbarrati sotto il tendone di Dreamland. Ed è qui l’aspetto più personale del film, la riflessione sulla natura intrinseca dello spettacolo, circense e in senso traslato anche cinematografico. Infatti il regista cita le coreografie geometriche del maestro del musical Busby Berkeley. E nel disegno del regno fuori scala di Dreamland, con le sue Isole dell’incubo, Meraviglie della scienza e Colosseo, c’è qualcosa tanto del titanismo alla Fritz Lang quanto del parco giochi disneyano.

Ma questo regno, non dimentichiamolo, è nelle mani di un imprenditore mefistofelico. Così Dumbo finisce per essere un film a due facce. Da un lato scontata favoletta con lieto fine sull’elefantino, troppo preoccupata del politicamente corretto. Dall’altro però, più sottilmente, c’è la fiaba nera che racconta l’intrinseca ambiguità dello spettacolo – anche cinematografico, quello cui assiste incantata Milly. Qualcosa insieme di affascinante ma anche sinistro, proprio come l’insinuante Vandevere, creatore d’un paese dei balocchi che ricorda in modo preoccupante Disneyland. Anche per questo si tratta di un regno destinato a crollare su stesso.