“Alma” di Enrico Ruggeri non è un album semplice: ascoltarlo una prima volta non basta, perché il cantautore di Mistero e Bianca balena ha tanto da dire e comunicare, in queste 11 tracce intense e dietro le quali si nota una certa cura del dettaglio. Una seconda volta, ancora, non è sufficiente per capire tutto, ma forse è quanto basta per renderci conto che ci troviamo di fronte a un’opera intimista che si apre a tante interpretazioni. Uno solo, però, resta l’albero maestro dal quale nessuno può scendere: “Alma” di Enrico Ruggeri è un vademecum dello spirito, qualcosa che la musica riesce a conquistare con il suo linguaggio universale da una parte e selettivo dall’altra.
Le fondamenta di questo nuovo disco, il trentancinquesimo lavoro in studio, si individuano in ciò che Askanews definisce “urgenza creativa” riprendendo le considerazioni del diretto interessato. Enrico Ruggeri definisce “Alma” come il progetto più importante della sua vita, costruito in tre anni durante i quali ha cercato di trovare nuove direzioni che lo allontanassero dalla ripetitività. Tre anni fa, nel 2016, usciva “Un viaggio incredibile”, ma nel frattempo portava a termine “Noblesse oblige” (2017) e “L’anticristo” (2018) con i suoi Decibel e il rischio di ritrovarsi su una strada già percorsa era diventato un’ossessione. Le scelte presenti in “Alma” sono il risultato di una scrematura sonora e lirica fedele a una certa evoluzione che il cantautore ha sposato per arrivare ai nuovi brani.
Enrico Ruggeri è riuscito nell’intento. Il suo nuovo album è maturo, fresco e saggio. Non ha rinunciato, tuttavia, a coinvolgere i suoi compagni di lotta giovanile: Silvio Capeccia e Fulvio Muzio dei Decibel hanno collaborato alla scrittura di alcune canzoni. Nel disco troviamo anche la collaborazione del figlio Pico, autore del brano Come lacrime nella pioggia che apre la tracklist e che Ruggeri ha rivisitato per tirare fuori il meglio. L’autore della copertina è Dario Ballantini, imitatore e artista legato al cantante da un’antica e sincera amicizia.
Il timbro, la presenza carismatica e l’outfit di Enrico Ruggeri sono parametri che fanno di lui un vero e proprio Duca – no, fermi, non stiamo creando un parallelismo con David Bowie, state buoni – della canzone italiana, un maestro elegante e dannato che indossa gli occhiali da sole come Robert Halford dei Judas Priest, che veste di nero ma ci racconta quanto sia importante raggiungere la luce che vediamo in fondo al tunnel, e lo fa con Come lacrime nella pioggia. Un brano pop-rock che nell’intro ci fa sentire un arpeggio di chitarra pulita, quasi un affaccio agli anni ’60 sull’onda di Walk away dei Franz Ferdinand. Il tempo che scorre velocemente è il protagonista del testo: «Le nostre vite cambiano, un perenne mutamento che nasce con noi. Le nostre vite passano, apparentemente poco resta di noi, come frasi che hai scritto in spiaggia, come lacrime nella pioggia», e l’erudizione di chi scrive emerge proprio da questa sottile citazione da Blade Runner.
Siamo sotto il sole del Kashmir, adesso, grazie alle cinque note che introducono Il costo della vita, un brano dal sapore esotico e dal retrogusto amaro. Chitarre acustiche, archi, dinamiche in levare e shuffle ci regalano un arrangiamento che ci racconta le difficoltà nascoste dietro i sogni: «Volano le rondini sul mare, partono, ma sanno di tornare, mentre noi andiamo più lontano e ci dimentichiamo il costo della vita». La sorpresa arriva nello special, quando un sintetizzatore ci schianta ai tempi dei Genesis o della PFM di Impressioni di settembre. Il brano termina, ma lascia uno strascico di amaro in Un pallone, il featuring con Ermal Meta e l’unico duetto presente nel disco.
Osare sull’interpretazione del significato è d’obbligo, perché da una parte troviamo un possibile riferimento alla felicità da raggiungere: «Avremo caldo d’estate, ma intanto dormiamo abbracciati guardandoci il fiato, sognando di noi», ma dall’altra è possibile il riferimento ai fenomeni migratori: «Prati verdi e mari blu. Un altro cielo, un’altra vita. Tutti fuori, via da questo mondo». Chi ha scelto la seconda opzione ci è andato vicino. Come ha affermato lo stesso Enrico a Rolling Stone, Un pallone trae ispirazione dalla storia di Iqbal Masih, un giovanissimo rivoluzionario che nel 1992 decise di lottare contro il lavoro minorile nel suo Pakistan. Il finale si fa straziante e la sfera emotiva si arricchisce di intensità: «Mi piacerebbe vedere mio padre guardarmi giocare e ritrovare la strada di casa parlando con lui». Chitarre in clean e una batteria lenta ma sostenuta accompagnano le voci dei due artisti – Ermal Meta ha sempre manifestato la stima per Enrico Ruggeri – che in più punti si uniscono in coro e creano lo stesso effetto di un duetto d’archi soave e profondo.
Chi ama i Cure, i Placebo e tutte le migliori produzioni new wave degli ultimi trent’anni troverà in Cuori infranti un palese tributo alle correnti più crepuscolari della musica alternativa internazionale. Il riff che accompagna la voce di Enrico Ruggeri ricorda le scale di Boys don’t cry della squadra di Robert Smith, ma ciò che troveremo proseguendo con l’ascolto si sposta decisamente al di sopra del dark e del post punk: un coro, il rintocco di una campana e un testo ruvido e tremendamente reale fanno di Cuori infranti un manifesto della solitudine: «Abbandonati qui senza più lacrime, persi tra verità e fantasie, imprigionati noi in scatole fragili, tra muta immobilità e tachicardia».
Gridare one, two, three, four è spontaneo quando ascoltiamo Supereroi, canzone punk-rock che ricorda i Ramones grazie all’arrangiamento curato dal Decibel Fulvio Muzio. Il testo ironizza sull’ipotesi dell’esistenza di supereroi più cattivi rispetto agli standard – Superman, Spider Man e Batman, nel testo, diventano più spietati con i cattivi per demotivare le loro intenzioni – ed è il punto più felice e spensierato del disco. Il labirinto, in assoluto, è un brano onirico che ripropone la levitazione emozionale dei Pink Floyd senza troppe pretese, grazie al piano rhodes e agli accordi di settima+, farciti da una batteria lenta e vigorosa, decisa nel collocarsi di una manifestazione psichedelica alla quale contribuisce anche il testo: «Tra il baratro e la cima sono qui, nel labirinto, e so che la definitiva scena è un fiume, e io ci annegherò». Il ruolo del fiume, quasi un paravento tra la luce e il buio, ha lo stesso ruolo che troviamo in Fluido dei Verdena e in Yes the river knows dei Doors. Il brano, in effetti, parla proprio del labirinto come luogo di confine tra “paradiso” e “fine”.
L’amore ai tempi del colera è la prima citazione letteraria di “Alma” di Enrico Ruggeri. Gabriel García Márquez trova il suo tributo in questo brano, una danza in 6/8 che rasenta il valzer ma che in realtà è uno straziante ricordo: «Ho incontrato in mille sguardi i miei ricordi, le tue mani. Darei tutto ciò che ho avuto per un’ora, un minuto coi tuoi occhi ancora dentro ai miei». Ascoltare L’amore ai tempi del colera è come ritrovarsi all’interno del relitto di una nave, per perlustrare cabine che un tempo si illuminavano di vita e oggi, secoli e millenni dopo, sono vuote e morte.
Il treno va ci fa ballare e riflettere, perché gli accordi in levare che esplorano country e folk accompagnano un testo metaforico: «Il treno va finché c’è vita, ma devi scendere per spingere in salita. Il treno va con il suo capitale umano, corre lontano», e i binari violano il verde immacolato delle campagne come si viola l’innocenza. Forse Enrico Ruggeri catechizza il progresso o vuole parlarci di quanto il tempo sia poco – come già ci ha detto in Come lacrime nella pioggia – per potersi lasciare sfuggire le occasioni. Il mood è lo stesso di Primavera a Sarajevo, ma qualche anno dopo e con più cose da dire, ispirate dal background sociale e politico del nuovo decennio degli anni Duemila che volge al termine.
Il punto di rottura è puro inferno. Siamo di fronte allo specchio e i nostri occhi tradiscono un momento di grande smarrimento. Enrico Ruggeri ci racconta quel momento in cui sentiamo anche la mancanza della solitudine, e il dolore al petto dovuto alle tante lame conficcate dalle delusioni suggella il punto di rottura, quella falla apparentemente insanabile che, però, un giorno sarà la nostra forza. In Cime tempestose troviamo il secondo riferimento letterario del disco, con il titolo che è un tributo all’opera di Emily Brontë. Soft, acustico, popolare, l’arrangiamento contiene chitarre pizzicate su ogni battuta per accompagnare un testo che ci ricorda che possiamo essere pubblico e attore: «Avremo giorni complicati e oscillazioni astrali, e notti a ipotizzare l’impossibile con il terrore atavico del misterioso sogno irreversibile, siamo pubblico e attore». Cime tempestose ci presenta la parte più ermetica di Enrico Ruggeri e il punto artistico più alto di tutto l’album, ma per avere il bis dobbiamo spostarsi sul brano che chiude il disco.
Forma 21 è quasi una messa. Ballad per eccellenza ed eccellenza in un ballad. Pop, chitarre acustiche, pianoforte, un basso timido e una batteria educata, Forma 21 è un brano dedicato a Lou Reed, al quale Enrico Ruggeri dedica il suo tributo. La “Forma 21” era la posizione del Tai Chi nella quale era stato rinvenuto il suo corpo. “Alma” di Enrico Ruggeri si chiude con questo brano di devozione, commovente nell’intento e intensissimo grazie alla musica scelta.
Sì, dicevamo, Enrico Ruggeri è riuscito nel suo intento e ci ha regalato un suo diario emozionale. 60 anni che ancora lo rendono eterno – Ermal Meta lo considera un maestro – non si fanno sentire, perché già dai tempi dei Decibel il cantautore aveva dimostrato di vivere nell’avanguardia. Ci volle Polvere, ci volle Peter Pan, ci volle Il portiere di notte, ci volle Nuovo swing per comprendere che qualcuno aveva deciso di portare in Italia un po’ d’America, un po’ di Regno Unito e di insistere quando tutte le influenze arrivate nel Belpaese si erano spente negli anni ’80. “Alma” di Enrico Ruggeri ci fa capire che il discorso dell’innovazione, della saggezza e della profondità spirituale del rock non è mai stato interrotto.