Peppermint – L’angelo della vendetta, Jennifer Garner versione giustiziera in un revenge movie impresentabile

Alla mogliettina modello i narcotrafficanti ammazzano marito e figlia. Il processo è una farsa, perché giudici e poliziotti sono corrotti. Toccherà far da sé. Da giovedì 21 in sala "Peppermint", film d’azione reazionario con cattivi che parlano spagnolo e l’eroina bianca, bella e brava.

Peppermint

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La cosa più ridicola è che come titolo italiano per Peppermint sia stato scelto L’angelo della vendetta, lo stesso d’un inquietante cult metropolitano di Abel Ferrara con cui questo volgare revenge movie con Jennifer Garner non condivide nulla, a parte l’idea di partenza di una protagonista che subisce una tremenda violenza e decide di vendicarsi.

Nel film firmato dallo specialista del genere, Pierre Morel (Taken), la storia – chiamiamola così, dato che la sceneggiatura di Chad St. John è poco più d’una impalcatura per sorreggere l’action brutale – racconta d’una donna, Riley North, a cui i cattivi uccidono marito e figlia, mentre lei, crivellata di colpi, sopravvive a stento.

Quando si riprende, Riley riconosce i colpevoli, tre orrendi tipi tatuati e ovviamente ispanoamericani. Si va a processo ma, inutile dirlo, è una farsa, perché gli avvocati sono prezzolati, e poliziotti e giudici sono a libro paga del narcotrafficante Garcia, che ha il grazioso soprannome di Ghigliottina, immaginate perché. Riley capisce che non è aria e scompare dalla circolazione. Ritorna cinque anni dopo, e da moglie e madre modello s’è trasformata, non si sa bene come – è stata da qualche parte ad addestrarsi, questo ci fa capire la sceneggiatura, e tanto basti – in un killer muscolare, esperta di armi, pugnali e lotta corpo a corpo, pure con un certo gusto per la tortura.

Però è rimasta pura nell’animo, lo dimostra il fatto che vive in una discarica apocalittica in periferia dove protegge deboli e bambini dai malvagi. Comunque è arrivato il momento della resa dei conti e Riley elimina uno a uno i colpevoli, fino a giungere all’agognato Garcia. Naturalmente non può mancare il popolo dei social che inneggia a questa vendicatrice dal cuore d’oro, che ha le sue buone ragioni e ci libera pure le strade da tutti questi brutti ceffi.

Peppermint farebbe la felicità di Trump, nel senso che i cattivi parlano tutti spagnolo, commerciano in droga e fanno affari coi cartelli messicani. Mentre l’eroina è bianca, bella e si chiama pure North, a suggerire, magari inconsapevolmente, una sorta di suddivisione anche geografica tra buoni e cattivi, tra i quali sarà dunque il caso di alzare qualche barriera divisoria.

In questi ultimi anni, a parte appunto l’esempio archeologico del film di Abel Ferrara del 1981, sono aumentate in maniera esponenziale le storie con al centro donne forti e volitive, da Mad Max: Fury Road ad Atomica bionda, con anche esempi supereroistici di grande successo come Wonder Woman e il recentissimo Captain Marvel. Ma non è neanche il caso di abbozzare letture sociologiche o femministe nel caso di Peppermint, soltanto un action movie reazionario di serie b, con personaggi talmente insignificanti da non far scattare neppure l’identificazione dello spettatore, che resta a guardare la serie di ammazzamenti senza essere invitato a parteggiare per l’eroina.

Riley è una pura funzione narrativa, un fantoccio utile a mettere in moto la sequenza mirabolante di assassinii, nei quali non c’è nemmeno un’idea visiva della violenza, tantomeno quel gusto coreografico delle scene d’azione che si trova in film come John Wick, brutti ma almeno pensati in termini cinematografici. Peppermint invece è così anonimo nella sua scolastica progressione narrativa da non avere neanche la forza per diventare un cult da cinema spazzatura.