La musica di ieri e quella di oggi, una breve analisi in cui mi infilo ancora una volta

La sensazione è quella di vivere un primo Novecento. In una certa pochezza musicale si stanno destrutturando e riscrivendo cose del passato, s'ode come un ronzìo di sottofondo, è una notte di zanzare senza Autan.


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Questo pezzo, quello che state per leggere, sta diventando una sorta di canone. Una sorta di canovaccio che ogni tanto mi ritrovo a declamare. Perché uno pensa sempre di aver toccato il fondo, invece, per dirla con Freak Antoni, ecco che si comincia a scavare.

Per cui ripartiamo da qui. Ancora una volta.

La contemporaneità.

Viviamo da sempre nell’oggi, non essendo datati di una Delorean o del Tardis, e tendiamo a considerare l’oggi il tutto. Anche chi si orienta al passato, simonreynoldosianamente nostalgico, o al futuro, non fa che partire dall’oggi. Non se ne esce. Ma forse sarebbe il caso di provare a usare un drone, volare alto, e cercare di guardare con una prospettiva più ampia quel che sta succedendo.
Si sta parlando di musica, chiariamoci, e parlando di musica affrontare il tema della contemporaneità è sempre rischioso. Perché ci siamo dentro fino al collo, e anche oltre. In primis. E perché, per nostra natura, tendiamo a usare noi stessi come parametro per giudicare quel che ci circonda, ah i vecchi tempi andati, ah, che nostalgia, ma anche, ah i vecchi tempi andati, che due palle.
Qualsiasi movimento, qualsiasi cambiamento, qualsiasi suono viene, automaticamente, inserito dentro un contesto spesso limitato dall’anagrafe, da una parte con lo spauracchio del “trombonismo luddista” dall’altra con quello di un “giovanilismo al limite del bimbominkismo”. Della serie, o è tutto brutto quello che non abbia data anteriore agli anni 70, o è tutto stupendo quel che è arrivato negli ultimi mesi.
La faccenda non può certo essere risolta così. La contemporaneità, in arte, non ce la siamo inventata noi. Non ne siamo noi detentori.
Esistono però dei paradigmi che ci possono venire in soccorso. Dentro i quali possiamo immettere i dati, sperando siano corretti e cercando di dar vita a una mappa decifrabile a occhio nudo.
Credo non esista essere umano che non abbia sentito dire una scempiaggine tipo “le note sono sette, è impossibile arrivati a questo punto scrivere qualcosa che sia originale”, dove per “a questo punto” si intende dopo circa sessanta, settant’anni di musica leggera, intendendo con questo quella musica popolare rivolta soprattutto a un pubblico giovane (identificato dalla nascita del rock in poi come un vero target, si legga Jon Savage a riguardo). Ora, a prescindere che le note, anche solo continuando stupidamente a prendere in considerazione la nostra metodologia di codifica, ideata mille anni fa da Guido d’Arezzo, sarebbero dodici e non sette, non è certo il limitato numero di abbinamenti tra le suddette a determinare la possibilità a meno di scrivere qualcosa di originale. La musica non è fatta solo di note, non dico niente di originale.

Solo che, e qui credo si possano serenamente tirare in ballo i corsi e ricorsi storici, anche in arte succede che a volte si colmi la misura, si cominci quindi a cercare vie di fuga dalla ripetitività che spesso sfociano in sperimentalismi estremi, finendo per porre la sperimentazione al centro della scena, se non addirittura per lasciare che sia solo questa a occuparla militarmente, la scena. Così poi capita che la contemporaneità diventi solo sperimentazione, suono attuale, finendo per essere qualcosa di poco plausibile, poco interessante, addirittura irrilevante. Niente capace di fermarsi nel tempo. Di superare non dico le generazioni, concetto che anch’esso sta incappando nel medesimo meccanismo. Guardiamo alla musica classica, per dire. Siamo nel 2019, ma quasi tutto quel che è successo nella classica nel corso dell’ultimo secolo, diciamo da dopo i tre balletti di Igor Stravinskij, ha finito per avere più che altro un seguito teorico, concettuale, puramente intellettuale. Come accadde all’epoca dei preraffaelliti, in arte, si è cominciato a guardare indietro nel tempo, allontanandosi via via proprio dalla contemporaneità, vista non tanto con sospetto quanto con disgusto.
Ora, sarebbe interessante identificare chi è stato lo Stravinskij della musica leggera. O se magari al compositore russo, poi divenuto francese e poi americano non sia corrisposto un genere, che so?, il grunge, il rap, la Drum’n bass. Sia come sia, a dare uno sguardo leggero a quel che sta succedendo oggi, la sensazione è proprio di essere a inizio novecento. Si è cominciato a riscrivere il passato recente, non tanto lasciandoci andare al revivalismo, quanto proprio destrutturando e riscrivendo le opere del passato neanche troppo remoto. Il suono si è fatto sempre meno suono, secondo i canoni cui eravamo abituati, a ragione. Oggi, guardiamo solo al nostro piccolo giardino, va per la maggiore la trap, che nella versione italiana è una forma sciatta di quella nata nel sud degli Stati Uniti ormai un’era (musicale) geologica fa. Ben lo ha capito Salmo, che ne ha scritto il requiem nella splendida Perdonami, o più recentemente, si parla di ore, Daniele Silvestri, che ha sfornato il requiem del genere, Blitz gerontoiatrico.

Va per la maggiore anche l’indie, che è la forma trap del cantautorato. Anche qui, sciatteria, zero stile, tecnica assente non per urgenza o necessità artistica, ma per mancanza di studio e, si suppone, di talento (o mezzi). Certo rispetto alla trap sembra di ascoltare Wagner, ma un nano alto resta pur sempre un nano.

Ascolti questa musica e ti senti figlio dei tuoi tempi, vero, ma non è un bel sentire, e soprattutto, la sensazione è che non siano grandi tempi. Come se quanto scaturito nel nuovo millennio non fosse che il corrispettivo, Dio mi perdoni, di quanto la musica classica ha fatto nei tre quarti del Novecento, quelli giunti dopo la prima guerra mondiale. Ghali come il nuovo Berg? Per certi versi, e so che la mia è una forzatura che farà incazzare sia i trapper, che con buona probabilità ignoreranno chi sia Berg, sia i classicisti, che ignoreranno chi sia Ghali e se non lo dovessero ignorare si incazzerebbero anche di più.
Facendo un salto in avanti, diciamo verso la metà di questo secolo, se mai le cose saranno ancora come oggi, fatto che vista la vita breve del cd e del download, presto seppelliti dallo streaming e di conseguenza dalla musica che lo streaming impone, sembra piuttosto improbabile, ci possiamo immaginare un paesaggio popolato da gente che ascolta i Pink Floyd e i Rolling Stones, passando per Beatles e Radiohead, i corrispettivi di Mozart, Bach o Hayden. La trap sarà il corrispettivo della musica dodecafonica. Scusate la bestemmia, Schoemberg abbia pietà di me. L’indie, l’odierna musica atonale. Il tutto senza apparati teorici di supporto, solo link in rete che, si suppone, in futuro saranno obsoleti come audiocassette smagnetizzate.
La musica leggera, per sua stessa definizione, non pretende troppi ragionamenti, o non dovrebbe pretenderne.

Non fossero così brutte, le canzoni che girano oggi, verrebbe da ascoltarle e basta.

Ma il subconscio ci spinge a teorizzarle, perché almeno siamo distratti e non possono che fare da sottofondo fastidioso, come il ronzio di una zanzara in una notte d’estate senza Autan e senza Limoncello.