Ode a Keith Flint, cantante-icona dei Prodigy

I Prodigy nel 1997 dimostrarono che si poteva ancora essere Punk alla fine del millennio. Oggi con l'addio a Keith sarà tutto davvero meno Punk, per sempre.


INTERAZIONI: 580

Negli anni Novanta sono stato un giovane punk. Fuori tempo massimo, ci dice la storia della musica. Perché il punk c’era stato quando io ero poco più di un bambino, e perché il punk che ci sarebbe stato poi ne sarebbe stata versione annacquata, buona giusto per chi si accontenta.

Nei fatti ho passato una intera estate, quella del 1994, indossando un paio di pantaloni di un pigiama Arimo, pantaloni corti, coi capelli che mi arrivavano poco sopra il sedere. Punk fuori tempo massimo, certo, ma punk.

Poi, nel 1997, sono arrivati i Prodigy, e ho capito che punk si poteva continuare a essere anche negli anni Novanta, compiutamente. Volendo anche flirtando col pop, perché questo un po’ i Prodigy facevano. Essere anarchici, devastanti, disallineati, esteticamente incredibili, ostici e al tempo stesso favolosi. I Prodigy questo erano.

Oggi arriva la notizia che Keith Flint, il loro cantante-icona, quello coi capelli verdi a forma di ali, quello coi denti marci, lo sguardo allucinato, la voce impastata col vetro, lui, Keith Flint è stato trovato morto in casa, in Inghilterra. Le cause sono sconosciute, ma se è vero che la filosofia della band in questione era vivi veloce e muori giovane non c’è da sorprendersi tanto che sia morto, quanto che sia morto a quarantanove anni, oggi.

Perché Keith Flint era del 1969, come me, e come me è stato un punk fuori tempo massimo, ma comunque un punk.

Prendere i canoni del rock, mescolarli con l’industrial, con suoni quindi che con gli anni Novanta erano un tutt’uno, metterci ritmi frenetici, non a caso i Prodigy di Keith Flint, ma forse in questo caso toccherebbe dire più di Liam Howlett, mente musicale del gruppo, erano alfieri di una macro scena da club che annoverava altri giganti come Chemical Brothers, e che con ritmi decisamente più rallentati ha avuto nei Massive Attack, in Tricky, nei Portishead e più in generale in tutto quello che è arrivato da Bristol, ecco cosa erano i Prodigy per quella generazione nata a cavallo tra i sessanta e i settanta, la mia.

Nato come ballerino, Flint aveva presto occupato la scena della band inglese, facendosi fisicamente icona di un modo di vivere la musica, quello che poi nel resto del mondo sarebbe stato indicato come Big Beat, capace di far ballare e sballare. Nuova rivoluzione dance, passatemi il termine, dopo quella partita da MadChester pochi anni prima. Colonna sonora per i rave, certo, ma anche per i club, i locali, o anche semplicemente per le serate passate in auto di chi non ne ha mai voluto sapere di Ligabue e di Neil Young. Due dei loro album, Music for the Jilted Generation, del 1994, e soprattutto The Fat of The Land, del 1997, con tre bombe carta come Breathe, Smack My Bitch Up e Firestarter sono parte del bagaglio a mano di chi deve stabilire da che parte stare e si troverà sempre da quella dei disallineati, dall’altra parte.

Piangere chi muore giovane non è mai esercizio esaltante. Piangere un uomo di mezza età che ha vissuto intensamente men che meno.

Il fatto è che un pezzo alla volta si stanno sgretolando tutti i miti o presunti tali di una generazione, quella X cantata da Douglas Coupland, e quella subito successiva, e senza più miti la vita sembra un po’ meno interessante.

Devo assolutamente chiamare mia madre e sapere se, da qualche parte in cantina, ci sono ancora quei vecchi pantaloni corti del pigiama Arimo, come il giubbetto di pelle di serpente di Sailor in Cuore selvaggio il mio proclama di libertà.

Caspita, è morto Keith Flint.

Così, so di lasciarmi andare a paragoni idioti, inutili, dopo Joe Strummer e Sid Vicious, dopo Grant Hart e Jim Carroll, ecco che se ne va anche Keith Flint. Il mondo è un po’ meno punk, da oggi, ne approfittino quelli che ci vorrebbero tutti uguali.