Vent’anni senza Fabrizio De André, il grande assente della musica italiana

Faber dedicò una parola a tutto ciò che i suoi occhi incontrarono dalle strade di Genova alle campagne della Sardegna, e trasformò tutto in suoni e poesia


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L’11 gennaio ricorre come un rintocco silenzioso, grigio e mesto, dal momento in cui l’Italia si trova da vent’anni senza Fabrizio De André. Erano le 2:30 quando all’Istituto dei Tumori di Milano si spensero per sempre quegli occhi che tanto avevano guardato, tanto avevano letto e tanto avevano abbracciato gli ultimi, i primi, i giovani, gli uomini e le donne, gli anziani e i bambini, i politici e gli anarchici, i fedeli e gli agnostici. Occhi che osservavano e decodificavano attraverso quelle mani capaci di mettere nero su bianco ogni gentile pensiero, ogni denuncia e ogni apporto poetico a un’Italia che cresceva e cambiava, a un popolo che non smetteva di sognare e di cercare la bellezza.

Questo, Faber, lo aveva ben capito. Forte e benevolo come un dio che si incarnava su uno sgabello, che imbracciava una chitarra e cantava tra i fumi di una sigaretta lasciata lì a bruciare, di fianco, cantava storie che diventavano dardi scagliati ora con forza, ora con simpatia e ora con dolcezza. Una parola per tutti e per tutto, perché attraverso la musica di Fabrizio De André chiunque ha saputo trovare un dettaglio della propria esistenza che prima ignorava: siamo stati tutti un po’ Marinella, chiunque si è sentito Giudice, chiunque ha trovato conforto e comprensione quando Faber cantava quell’Amore cieco fatto di sudditanza e velenosa adorazione.

La sua voce era una lama, la perfetta sposa per le parole che la sua mente forgiava e imprimeva nel cielo come un monito destinato a restare eterno. Ogni disco era un capitolo di saggezza, una letteratura nuova che l’Italia scopriva e conservava gelosamente tra le collezioni dei vinili, su quella mensola che oggi diventa un monumento, un altare per ricordare quello spaccato di storia che è sempre bene riportare al presente per dire che tutto ciò che Fabrizio De André è stato, ancora sarà nel nome di un’immortalità costruita con quei suoni e quelle parole che ancora oggi sono oggetto di studio ed esegesi.

Se spendere parole dopo vent’anni senza Fabrizio De André servisse a qualcosa, allora si potrebbe ricordare l’uomo ferito e provato che stringeva per l’ultima volta Luigi Tenco con Preghiera in Gennaio, che Faber scrisse a seguito della notizia appresa nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967: il cantautore di Ciao amore ciao, l’amico, il tormentato ragazzo non c’era più. All’obitorio vide il suo corpo esanime e non ebbe bisogno di sapere altro. Le sue lacrime diventarono parole: «Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero, quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle dovrà riconsegnare». Poi fu “Volume 1” (1967), il primo disco di inediti che includeva Via del campoBocca di rosa, una feritoia sulla Genova meno battuta dai benpensanti, più vissuta da chi cercava battiti di vita, ossigeno e passione tra una bottiglia di vino e il profumo di una donna. Parole che possiamo spendere, quindi, feriti da un commiato che non conosce silenzio, che si circonda di tanti suoni.

Se versare lacrime dopo vent’anni senza Fabrizio De André avesse un senso, allora dovremmo scomodare il concetto di evoluzione: la storia della musica ricorda “Fabrizio De André in concerto” (1979), testimonianza in due volumi dell’esperienza live che Faber portò sul palco insieme alla Premiata Forneria Marconi, per brevità chiamata PFM. Le sue canzoni, ancora minimali negli arrangiamenti, si trasformarono in un’opera progressive rock che cambiò per sempre la sua carriera a partire da Il pescatore. La musica italiana toccava, con quel doppio live, uno dei suoi punti più alti: alla chitarra classica che accompagnava sempre le canzoni di Faber si unirono i sintetizzatori, i violini, gli effetti e le chitarre elettriche, assieme ai tempi dispari tipici dei componimenti della PFM. Lacrime che possiamo versare, quindi, con un un sorriso sul volto che diventa un solco, mentre premiamo le cuffie sulla testa per catturare ogni frequenza di quel vinile che non riusciamo ad abbandonare.

Se provare rabbia dopo vent’anni senza Fabrizio De André fosse utile, allora si potrebbe empatizzare con l’autore di Hotel Supramonte mentre viene privato dalla sua libertà insieme alla moglie Dori Ghezzi in quel drammatico 27 agosto 1979. La sua amata Sardegna lo mise alla prova per quattro mesi, e dopo la liberazione venne ascoltato dai giornalisti ai quali disse, in merito ai sequestratori: «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai». Da Hotel SupramonteL’indiano, la produzione artistica di De André venne altamente influenzata dall’incubo del sequestro, che mai intaccò il suo amore per la terra sarda. Forse no, provare rabbia per la grande assenza di Fabrizio De André in questo presente non è utile, perché egli stesso in un’intervista disse di essersi scoperto incapace di indignarsi, sentimento che non provava più da anni.

Se parlare dei nostri vent’anni senza Fabrizio De André servisse a tenere viva la sua memoria, potremmo tranquillamente smettere di farlo: assolti ma sempre coinvolti, Faber è lì, sempre sulla nostra porta a trovare una parola, un verso e un accordo di barrè per disegnare in musica il nostro stato d’animo. Lo ha fatto e lo farà sempre, ora in lingua italiana, ora nelle produzioni linguistiche presenti in “Crêuza de mä” (1984) con liriche in dialetto genovese e in tracce come Ave Maria (Deus ti salvet, Maria), in lingua sarda. No, parlare di De André potrebbe essere superfluo, perché Faber arriverà sempre prima di un nostro pensiero o di una nostra azione. Questo glielo dobbiamo, e lui stesso lo deve al suo coraggio e alla sua sensibilità. Passeggiava per le vie di Genova con la sua camicia rossa, osservava ogni dettaglio e ce lo raccontava. L’imperfetto, in questo caso, è solo una questione grammaticale, perché grazie a lui ci siamo innamorati della sua città, della sua gente e siamo tutti diventati dirimpettai di Via del Campo. 

Vent’anni senza Fabrizio De André si fanno sentire, ma anche la sua poesia disincantata e incantevole, anche le sue preghiere e la sua chitarra, ancora e ancora.