I Foja a Napoli per la festa di fine tour dopo gli States e l’Europa, l’intervista a Dario Sansone: “La musica è un collante”

I Foja portano la voce dell'Italia in giro per il mondo grazie alla lingua napoletana, e nelle loro date i napoletani si sentono a casa


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Nell’imminenza dello show che i Foja terranno a Napoli il 29 dicembre come festa di fine tour, riportiamo l’intervista a Dario Sansone che abbiamo sentito al telefono per farci raccontare l’ultimo intenso anno di attività. La band conclude in bellezza una lunga esperienza maturata negli Stati Uniti e in Europa, per poi prendersi una pausa. I Foja, un nome che descrive uno stato di irrequietezza che è tipico dei bambini – Dario fa l’esempio in un’intervista a NetNapoli in cui si dice che un bambino eccessivamente vivace tiene ‘a foja – sono la band partenopea che sta portando in tutto il mondo la loro musica, ma anche quella parte verace della musica italiana che viene dal cuore.

Tra le loro date più importanti ricordiamo quella in occasione del Festival del Nuovo Cinema ItalianoCharleston, dove i Foja hanno suonato in compagnia dei Black Noyze, un ensemble composto da tre producers. Nell’intervista a Dario Sansone ci siamo fatti raccontare l’esperienza de ‘O treno che va – questo il nome del tour – e del loro lungo viaggio durato due anni e che, con la data di Napoli del 29 dicembre, si chiude per una pausa. Folk, rock, indie, pop e altri universi fondono insieme i cinque musicisti che compongono la band: Dario Sansone per voce e chitarra, Ennio Frongillo alla chitarra, Giuliano Falcone al basso, Gianni Schiattarella alla batteria e Luigi Scialdone alla chitarra, al mandolino e all’ukulele.

Durante l’intervista a Dario Sansone emerge l’artista impegnato su più fronti, perché la voce dei Foja lavora anche nel cinema di animazione da tanti anni, due universi che spesso si incontrano nella musica della formazione napoletana. Ha collaborato, infatti, alla realizzazione di Gatta Cenerentola, vincitore del Premio Caligari nel 2017 e alcuni brani dell’album ‘O treno che va sono stati inseriti nella colonna sonora del film La parrucchiera.

Avete avuto modo di confrontarvi con un pubblico internazionale attraverso date in America e in Europa. Che esperienza è stata?

Per noi è stata una presa di coscienza del fatto che ancora oggi Napoli e la musica napoletana rappresentino l’Italia fuori dall’Italia. In questo momento storico, per noi, il significato di questo tour, quindi essere andati fuori e aver scambiato con altre culture la nostra musica, vale doppio. Mentre si vogliono chiudere porte e porti da queste parti, noi andiamo in giro e capiamo che c’è un mondo che attraverso il collante della musica riesce a non fare distinzioni di cultura e appartenenza geografica.

Com’è stato cantare in napoletano per un pubblico non italiano?

Partiamo dal punto che la comunità napoletana nel mondo è tra le più grosse, quindi i concerti erano per lo più frequentati da persone che per una sera si sono sentite a casa grazie alla nostra musica e alla nostra lingua. Il nostro, però, è un percorso di confronto: abbiamo incontrato tantissime persone autoctone e in questo periodo ci stiamo interfacciando con tanti artisti provenienti da altri luoghi. Non a caso abbiamo fatto uscire un singolo con la band catalana La Pegatina (Dummeneca, Domingo, ndr), un altro singolo con Pauline Croze che è francese (A qui tu appartiens, ndr) e abbiamo registrato negli States con una band di Charleston, i Black Noyze. Il messaggio, quindi, è sempre lo stesso: la musica non ha dei codici predefiniti. Quando si svincola dal mercato e dalle hitlist è un’arte che riesce a penetrare le emozioni senza avere dei codici prestabiliti. Io sono cresciuto ascoltando Roberto Murolo, Pino Daniele, Renato Carosone ma anche Neil Young, Bob Dylan e i Beatles di cui inizialmente non capivo i testi. Questo significa che la parola, quando detta con verità, riesce a superare la barriera linguistica. La musica è musica, quando suoni con il cuore.

Il rapporto con il cinema, vista anche l’ultima esperienza con “Gatta Cenerentola” e la precedente con “La parrucchiera”.  Un mondo distante dalla musica, ma in qualche modo vicino? Com’è nato il tutto?

Io sono abbastanza bipolare, lavoro nell’ambito televisivo e nel mondo dell’animazione da svariati anni, dunque non riesco a pensare che un libro sia solo un libro, una poesia sia solo una poesia. Non riesco a vedere le arti scollegate tra loro. Non penso possa esistere un film senza musica: il mio è un approccio abbastanza naturale. Quando hai un messaggio e un media giusto per far passare quell’emozione riesci ad amplificare quel messaggio con più forza. Il rapporto con il cinema è dunque nato in via del tutto naturale. Così come i nostri videoclip molto spesso si sono incontrati con l’animazione, viceversa è accaduto che nei film si individuassero nei Foja qualcosa di significativo ed evocativo per Napoli, e non solo.

La storia ci insegna che la musica napoletana si può prestare alla fusione con altri generi musicali. Restiamo ancora un attimo sul vostro rapporto col cinema: al “Nuovo Cinema Italiano Film Festival” di Charleston avete suonato insieme ai Black Noyze. Com’è stata la combinazione tra le vostre esperienze?

Abbiamo avuto un solo giorno di prova e il risultato è stato eccezionale e naturalissimo. La parte mediterranea dei Foja, radicata alle radici, si è sposata con la parte nera ed è stato tutto abbastanza naturale. La musica è un incontro. Renato Carosone è stato il primo a mettere lo swing assieme alla canzone tradizionale napoletana, ma anche Peppino di Capri ha fatto il twist o il rock’n’roll: c’è una linea di sangue che arriva fino ad oggi e che passa attraverso gli anni ’70 e ’80 con tutto quel movimento che suonava il funk come Pino Daniele nel blues in lingua napoletana. C’erano gli Almamegretta col dub, o i 99 Posse che erano i nostri Public Enemy.

Il 29 dicembre sarete a Napoli per la festa di fine tour prima di una pausa. Un resoconto del 2018, musicalmente parlando?

Il 2018 è stato bellissimo come il 2017 e come tutti gli anni precedenti. Essere vivi dopo 12 anni è già una grande impresa, quando si parte navigando in ciò che ora si chiama indie ma che prima si chiamava underground, perché si suonava veramente sotto terra. Gli anni dell’ultimo disco sono costellati di bellissimi momenti e ci fa piacere notare che le canzoni siano entrate nel cuore e nei giorni delle persone. Per noi questa è l’unica valutazione da fare, il resto sono cuoricini su Instagram e like su Facebook. L’happening più grande è il concerto e tutto il resto, almeno per noi che viviamo fortemente la dimensione live, è fuffa.

Da questa pausa potrebbe arrivare un nuovo album?

Non esattamente. Alcune canzoni vanno vestite e curate per diventare un nuovo album, e per realizzarlo abbiamo tanto lavoro da fare. Finché non abbiamo un prodotto degno della nostra storia e del nostro pubblico non ci sarà disco. Abbiamo dei pezzi in cantiere e nel frattempo continueremo questo progetto internazionale. A breve uscirà un brano che abbiamo registrato con i Black Noyze e a febbraio incontreremo un artista canadese che verrà a Napoli a registrare delle cose con noi. Saremo in tour in Canada da ottobre, ma partiamo sempre da Napoli e dalle nostre canzoni anche se giriamo il mondo.

La band è al lavoro, dunque, non solo per preparare la serata di fine tour, ma anche per pianificare un 2019 pieno di collaborazioni e date: i Foja sono instancabili e l’intervista a Dario Sansone ne è la conferma.