Il 21 dicembre 1978 i Cure pubblicavano il singolo Killing An Arab, un brano che fa ancora discutere

Il brano subì una vera e propria damnatio memoriae in occasione della Crisi del Golfo e degli attentati dell'11 settembre, nonostante le ripetute precisazioni della band


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Quando Robert Smith scriveva il testo di Killing an Arab era ancora sui banchi di scuola, e forse non immaginava che quel brano avrebbe portato i suoi Cure al centro di una polemica che ancora oggi si riaccende. Il 21 dicembre 1978 fu pubblicato come primo singolo, con 10:15 Saturday night nel lato B, durante le registrazioni di “Three imaginary boys”, primo LP della band. Tuttavia Killing an Arab non fece parte della tracklist dell’album: si dovette aspettare il secondo disco, “Boys don’t cry” (1980) per trovarla alla traccia numero 8.

La canzone fece discutere già dal titolo, perché quell’Uccidendo un Arabo venne da subito interpretato come un messaggio razzista e che incitava alla xenofobia, e lo stesso Robert Smith si ritrovò a specificare a più riprese quanto fosse stupido fermarsi al titolo e al testo, senza conoscere la vera storia che aveva ispirato il brano. Si trattava, infatti, di una rivisitazione poetica del libro L’Étranger di Albert Camus. Nel romanzo, raccontato in prima persona, Meursault è il protagonista fuori dagli schemi, che non condivide sentimenti né passioni con alcun altro essere umano.

La storia è ambientata in Algeria, e Meursault uccide un arabo sulla spiaggia in un momento in cui viene accecato dal sole riflesso sull’acqua e sul coltello che la sua vittima sta impugnando. Una volta esploso il primo colpo, il protagonista si avvicina al corpo esanime dell’arabo e gli rivolge altri quattro colpi di pistola. Per questo delitto, nel libro, verrà condannato. Killing an Arab riassumeva proprio il momento di follia e alienazione culminati con l’assassinio: «Sono vivo, sono morto, sono lo straniero che uccide l’arabo», dove il contrasto tra “sono vivo” e “sono morto” disegnano la personalità da outsider del protagonista. Di outsider, infatti, ha spesso parlato Robert Smith per descrivere la personificazione che ha voluto usare nel comporre il testo. Il protagonista non si descrive come “straniero” ma come “estraneo”, un outsider che non ha ragione di uccidere, ma lo fa perché accecato da quello stato di confusione e alienazione.

All’uscita del singolo, lo speaker di un’emittente radio disse che il brano fosse un inno anti-arabo, scatenando così l’istanza di censura da parte dell’American-Arab Anti Discrimination Committee, che portò la band – lo ricorda il New York Times – ad applicare un adesivo esplicativo sull’album “Standing on a beach” (1986), la prima raccolta di singoli dei Cure. L’adesivo riportava la scritta:

La canzone “Killing an Arab” non ha assolutamente sfumature razziste. È un brano che denuncia l’esistenza di ogni pregiudizio e la conseguente violenza. I Cure condannano il suo uso nel promuovere sentimenti anti-arabi.

Tuttavia, Killing an arab subì una damnatio memoriae quando scoppiò la Guerra del Golfo e a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001. Nel 2005 il brano fu riportato nei concerti, ma il titolo – l’unico elemento che Robert Smith era disposto a ritoccare – venne modificato in Kissing an Arab, mentre nel 2006 divenne Killing Another fino al 2011 quando diventò Killing an Ahab. Gli stessi Cure scelsero di modificare il titolo anziché tentare sempre di spiegarne il contenuto.

Il brano, tuttavia, è una pietra miliare del post-punk britannico e internazionale. Chitarre, crash di percussioni e groove sono continui fischi di proiettile, con un riff che Robert Smith esegue su una scala arabeggiante. Il ritmo è veloce, nel tipico stile del punk post-atomico che le nuove correnti goth e dark wave proponevano per inventare un linguaggio nuovo, che fosse ispirato alla letteratura preromantica e che disegnasse i contorni di quel grigio che il Nord Europa stava forgiando per conquistare il resto del mondo.

Killing an Arab portò i Cure sul podio degli artisti più influenti della fine dei ’70 e degli inizi degli ’80: Joy Division, Bauhaus, Depeche Mode e Siouxsie and the Banshees, fino a farli diventare una vera e propria leggenda della musica dark, grazie alle loro continue evoluzioni, i testi poetici e “maledetti” e un sound sempre più ricercato.