Il 13 Dicembre del 1986 usciva 17 Re dei Litfiba, il capolavoro della new wave italiana

Da "Resta" a "Gira nel mio cerchio" il disco sorprende ancora per i suoi messaggi, i suoni potenti e acidi e le liriche visionarie e profonde


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17 Re dei Litfiba è il disco di RestaOro neroGira nel mio cerchio ma anche del vecchio stile di canto di Piero Pelù, delle taglienti linee di basso di Gianni Maroccolo e dei testi sempre più visionari e acidi che lo rende, d’accordo con esperti e critici, il capolavoro della band fiorentina. Uscito a un anno di distanza da “Desaparecido” (1985) consacra i Litfiba a veri e degni portavoce della new wave britannica riconfezionata in Italia, in compagnia dei concittadini Diaframma che due anni prima avevano pubblicato “Siberia” (1984).

16 tracce ruvide, gelide come il clima del nord Europa e infuocate come l’inferno: “17 Re” dei Litfiba suona come un pazzo rinchiuso in una gabbia guarnita d’aghi, ma che riesce a liberarsi per rendere eterno il suo grido di follia. In esso troviamo diverso anche Federico “Ghigo” Renzulli, che non ossessiona l’ascolto con l’abuso del wah o con gli assoli pentatonici. Il suo intervento è sempre timido ma efficace, fatto di tanti riff e muri sonori che ben si sposano con il basso, che segue energicamente la batteria di Ringo de Palma. Olio, sale, aceto e spezie vengono offerti dalle tastiere di Antonio Aiazzi: organi, piano, effetti e rumori, tutto ben incastonato in un blocco di musica d’avanguardia e ricercata che sì, fanno di “17 Re” dei Litfiba il capolavoro non solo della band fiorentina, ma di gran parte del patrimonio musicale dell’Italia degli anni ’80.

16 tracce, ancora, che secondo voci di corridoio dovevano essere 17, di cui l’ultima avrebbe costituito la title-track ma venne scartata per motivi di qualità. Un bene, certamente, perché “17 Re” dei Litfiba non ha punti morti e il suo ascolto è quella spirale perfetta con picchi di potenza e atterraggi sul morbido. Resta apre le danze, con quel riff di Renzulli che dopo due battute viene accompagnato dall’intera strumentazione. Un testo delirante, apparentemente, che si rivolge alla «Regina della pioggia, forte pioggia» giunta «fino a qui» dopo aver superato «i sette mari», una regina così forte che ferisce mentre chi canta si ritrova «legato in una scatola col corpo da scorpione». Deformità, claustrofobia e metamorfosi che descrivono il disastro di Chernobyl, che i Litfiba ricordano in questo brano trascinante e squisitamente post-punk.

Re del silenzio riesce a emergere come un inno alla solitudine, invocata a gran voce da Piero Pelù nel grido “Ti prego, lasciami solo!”, accompagnata da un giro di basso che diventa un’onda suadente, seguita dal groove allucinato di Cafè, Mexcal e Rosita che ricorda l’inquietante pop di Let’s go to bed dei Cure. Basso e tastiere scandiscono le battute, poi arriva il riposo di Vendette. Un arpeggio ferroso, una batteria elettronica e tastiere che alternano pad e synth ricreano le atmosfere dei Joy Division, con lo stesso grigiore e lo stesso tormento di Atmosphere dei ragazzi di Ian Curtis, ma che diventano danze del ventre e trip caleidoscopici nel ritornello.

I Goblin di Phenomena e i Pink Floyd di Welcome to the machine rivivono nei primi secondi di Pierrot e la Luna, canzone ispirata al “Pierrot Lunaire” di Schönberg riscoperto mentre contempla la luna: «Luna, avvolgimi lo spazio della vista, accarezzo i tuoi occhi e mi resta in mano un po’ di te». Il brano è forse una delle migliori manifestazioni del Pelù paroliere e dei Litfiba costruttori di suoni. Tango, una danza disturbata e disturbante, condanna la leva obbligatoria e lo fa alternando ritmiche diverse. Un testo che arriva diretto come un sasso di porfido contro una vetrata: «Ora devo partire, qualcuno ha deciso per me. Non è chiaro se tra noi qualcuno spera ancora nella guerra. Io cercherò di ucciderlo».

17 Re dei Litfiba è anche il disco di Come un dio, quel brano in cui chi scrive immagina di essere un dio ossessionato dal potere che vuole rifare gli uomini «come ora: occhi per non vedere, bocche per non parlare», e che farebbe morire di paura chiunque, «promettendo l’inferno o la pietà». Nel presente una forte componente anticlericale, e le parole sono sottolineate da un arrangiamento puramente dark e atmosferico, quasi un canto intonato sotto un cielo rosso sangue. Quasi un’anticipazione della diabolica Gira nel mio cerchio, fatta di voci sintetiche e cambi di groove: prima un cupo cadenzarsi di cassa, basso e tastiere, poi un chimico post-punk che disegna un girotondo di spiriti dannati, claustrofobico: «sul corpo macchie blu, sette, otto, gira nel mio cerchio» dice Pelù, che in questa canzone diventa «un cane nero» con in dotazione «l’energia del vento».

Lo stesso Cane, forse, della traccia successiva. Nient’altro che una furia post-punk, una pausa senza impegni per riprendere il respiro che si smarrirà di nuovo con Oro nero. Arabeggiante, potente e sensuale come quel basso di Maroccolo che diventa un serpente ammaliatore e assassino. Oro nero è un’escursione nel deserto durante l’eclissi, con caldo e morte che tallonano per tutto il percorso. Ferito chiude il disco con la parola ai Nativi d’America, ai quali viene affidato il racconto dell’arrivo dell’uomo bianco e di tutto ciò che la Storia ricorda.

Se “17 Re” dei Litfiba è il punto più altro della Trilogia del Potere – aperta con “Desaparecido” e chiusa con “Litfiba 3” – è anche il momento in cui iniziarono i dissidi interni che portarono, dopo “Litfiba 3”, all’abbandono della band da parte di Maroccolo. Il bassista voleva mantenere le atmosfere dark e new wave, ma la band voleva affacciarsi verso il rock in stile italiano, un tiro alla fune che fece diventare “Litfiba 3” un compromesso raggiunto dagli elementi, ma che suggellò l’uscita di scena di Maroccolo. Non solo un distacco dovuto allo stile musicale: Maroccolo era anche in conflitto con Alberto Pirelli, il produttore discografico accusato di “rovinare i dischi pur non essendo musicista”.

“17 Re” dei Litfiba, pur essendo solamente il secondo album in studio della band fiorentina, è la più importante bandierina posta nel percorso artistico di Pelù e soci: un traguardo ineguagliato, un riferimento costante anche per tutti gli artisti che in quegli anni vollero adottare la new wave come propria matrice artistica. Le tracce sono una morsa minacciosa e seducente, una madre e una matrigna, una sorella e un fantasma di cui “17 Re” dei Litfiba disegna contorni e colori.