Suburbicon, George Clooney mette in scena l’incubo americano (recensione)

Il divo hollywoodiano, qui solo regista, recupera una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen e la trasforma in un apologo molto politicizzato sull’America contemporanea, ispirandosi a una vera storia di razzismo degli anni Cinquanta. Con meno humour paradossale e più rabbia. Protagonisti Matt Damon e Julianne Moore.

Suburbicon, George Clooney e il sogno americano

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Suburbicon di George Clooney era passato in concorso all’ultimo festival di Venezia, raccogliendo mugugni e nessun premio. La sesta regia del divo hollywoodiano, qui solo dietro la macchina da presa, è il tentativo di trasformare in una commedia nera politicizzata un vecchio copione degli anni Ottanta dei fratelli Coen – una classica storia paradossale di personaggi allo sbaraglio in una realtà più grande di loro –, innestandovi sopra un’esplosiva vicenda di razzismo, attraverso una riscrittura della sceneggiatura dello stesso Clooney e Grant Heslov.

Le due storie sono anche fisicamente giustapposte in Suburbicon, simboleggiate dalle due villette poste una di fronte all’altra in cui abitano i Lodge e i Meyers, in una di quelle oasi suburbane che, alla fine degli anni Cinquanta, periodo in cui è ambientato il film, venivano raccontate come la concretizzazione del sogno americano d’una piccola borghesia che poteva finalmente permettersi belle case e una vita agiata.

A casa Lodge il capofamiglia Gardner (Matt Damon) è corrucciato per l’incidente occorso alla moglie Rose (Julianne Moore), finita sulla sedia a rotelle. Per cui decide di sostituire l’ormai sfiorita consorte con la sorella gemella Margaret (ancora Moore), e inscena un furto in casa eseguito da una coppia di balordi molto coeniani, che uccidono Rose.

Il fatto che subito dopo Margaret s’installi in casa, addirittura trasformandosi nel look nella sorella scomparsa, come in un Vertigo hitchcockiano, dovrebbe attirare sospetti. Ma la comunità virtuosa di Suburbicon è tutta concentrata sulla villetta oltre la staccionata di casa Lodge, dove si sono trasferiti i Meyers (Karimah Westbrook e Leith Burke), prima coppia nera del quartiere – una vicenda ispirata a quanto accadde realmente a Levittown, in Pennsylvania. Immediata scatta la protesta della brava gente, che trascende in atti incontrollati di vandalismo.

Incontrollata diventa anche la vita dei Lodge, per l’arrivo di un investigatore assicuratore ficcanaso (Oscar Isaac) e le maglie dell’indagine di polizia che si stringono intorno a Gardner e al suo sogno di trasferirsi ai Caraibi una volta incassati i soldi della polizza della moglie.

Con Suburbicon, George Clooney ha voluto costruire una commedia nera in cadenze d’apologo sul sogno americano, attenuando lo humour paradossale ma compassato dei Coen e puntando su un grottesco più rabbioso, che mina alle fondamenta quell’incubo di villette a schiera in tinte pastello, con mogli vestite coi medesimi colori che accolgono mariti in camicia bianca a maniche corte e cravattino al ritorno dalle loro proficue giornate lavorative.

La messinscena di un mondo ideale alla Norman Rockwell è accurata – anche se già vista –, con un bel prologo che riprende la grafica d’una pubblicità anni Cinquanta per presentare il paradiso in terra di Suburbicon. Funziona poco, però, l’accostamento dei due drammi (il microcosmo di casa Lodge e il macrocosmo della vicenda dei Mayers), che restano didascalici e distinti, senza produrre mai un cortocircuito di senso. L’unico punto di contatto è nella presenza dei figli delle due famiglie, che diventano amici noncuranti del contesto. Ma sono proprio i ragazzini, più di tutti, a fare le spese di questo mondo impazzito e ingannevolmente perfetto.