In Nico 1988 Andy Warhol compare appena, in spezzoni d’epoca girati da Jonas Mekas, sgranati e sbilenchi come fossimo in un sogno, o un’allucinazione. Non c’è niente pure dell’immaginario da dolce vita d’una donna che era stata giovanissima modella bella e ambitissima, e che quella mitologia l’aveva vissuta, comparendo fuggevolmente nel capolavoro di Fellini.
Nico 1988 non è la biografia di una leggenda del rock. È chiara l’intenzione della regista Susanna Nicchiarelli di raccontare una storia lontana dai tipici biopic elettrizzanti e scandalistici sulle star maledette. Eppure Christa Päffgen in arte Nico, nata in Germania appena prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale – quello sì un incubo che ritorna di continuo a ricordarle traumi mai cicatrizzati e fuochi mai spenti –, a suo modo stella lo era stata, da subito, icona degli anni Sessanta come chanteuse svagata innestata dentro il rock nichilista dei Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, prodotti proprio da Warhol, e incrociando tutto il bel (?) mondo della musica di quegli anni, da Jim Morrison a Brian Jones.
La Nico del 1986, però – il film racconta, sino alla morte nel 1988, gli ultimi due anni di vita dell’artista, interpretata con un’adesione e misura ammirevoli da Trine Dyrholm, che canta con la propria voce – di quei tempi circonfusi d’un mito ingannevole non vuole più sentir parlare, stufa di giornalisti nostalgici che le chiedono sempre del passato e mai del presente. Giunta a metà degli anni Ottanta Nico è una donna stanca, anche della sua musica bellissima e funerea, eroinomane, oppressa dal senso di colpa verso il figlio avuto con Alain Delon e mai riconosciuto da padre.
Nico 1988, prodotto dalla Vivo Film, meritato vincitore a Venezia del premio della sezione Orizzonti, vuole essere insieme, sotto le sembianze dimesse, un ritratto di donna e una fotografia dell’Europa degli anni Ottanta, che Nico attraversa in tournée insieme a un complesso scalcinato. Tutto il continente, dall’Inghilterra – “Vivo a Manchester perché mi ricorda Berlino, una città di macerie”, dice Nico durante un’intervista radiofonica – all’Italia alla Praga comunista, sembra sull’orlo d’un collasso, lontanissima dalle speranze e le utopie colorate degli anni Sessanta, ingrigita come questa donna consumata dalla leggenda che è stata obbligata a trascinarsi appresso – perciò è sollevata dallo sfiorire della bellezza.
Nico 1988 è organizzato per piccoli blocchi di vita quotidiana, che costruiscono un diario d’infelicità individuale e collettivo, senza reticenze e però mai voyeristico – infatti la morte dell’artista nel 1988, per una caduta dalla bicicletta a Ibiza, è lasciata fuori campo. Nel mentre si raccontano i suoi tentativi di ristabilire un rapporto col figlio, i desideri velleitari d’una vita borghese, la forza d’un talento che riaffiora all’improvviso – il concerto in Cecoslovacchia bloccato dalla polizia, raro momento a caldo del film, che recupera il senso del rock come utopia libertaria. Nico 1988 è un ritratto senza maledettismo ma nemmeno sentimentalismo, che tiene volutamente a distanza lo spettatore, obbligandolo non a emozionarsi ma a riflettere.