L’incredibile vita di Norman, un grande Richard Gere faccendiere a New York

Un piccolo traffichino fa di tutto per ingraziarsi i potenti della Grande Mela. Forse non è un ambizioso, e nel suo modo di fare c’è un’oscura nobiltà. Il divo di Hollywood regala la sua migliore interpretazione recente, in una satira dell’ambiente degli affari ebraico-newyorchese.

L’incredibile vita di Norman con Richard Gere, recensione

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Chi è Norman Oppenheimer? Il protagonista del nuovo film con Richard Gere, L’incredibile vita di Norman – diretto da Joseph Cedar e prodotto da quell’Oren Moverman ormai collaboratore di fiducia del divo americano, avendolo diretto ne Gli invisibili e The Dinner –, è un “fixer”, un faccendiere, come recita il sottotitolo che sembra sbucato fuori da un romanzo inglese settecentesco di Defoe o Samuel Richardson (“La moderata ascesa e la tragica caduta di un faccendiere newyorchese”).

Intabarrato nella sua immutabile divisa d’ordinanza, con inconfondibile cappotto di cammello e coppola, Norman s’aggira tra i palazzi del potere – più le anticamere, in verità –, impegnato nel suo incessante lavorio di costruzione di trame e relazioni, cercando di avvicinare e mettere in collegamento i detentori del potere politico ed economico del bel mondo della finanza ebraico-newyorkese. Sempre pronto a millantare conoscenze che non ha e disposto ad aiutare chiunque pur di raggiungere il suo obiettivo.

Che resta però poco chiaro. Perché in realtà non sappiamo quasi nulla di quest’uomo: è ebreo, ha un nipote avvocato ben inserito che lo tratta con sufficienza e imbarazzo, frequenta la sinagoga, ma tutto il resto è avvolto nel mistero. Dove abita, che lavoro fa davvero? Ha realmente, come sostiene, una figlia? E se fosse un ex potente caduto in disgrazia, come sembra di capire da una battuta allusiva?

Nelle intenzioni del regista Joseph Cedar, L’incredibile vita di Norman è una rilettura dell’archetipo dell’ebreo cortigiano – dalle numerose ricorrenze, a partire dalla storia biblica di Giuseppe e il Faraone sino allo Shylock del Mercante di Venezia shakespeariano –, dell’uomo che grazie a un colpo di fortuna riesce a ingraziarsi i potenti (nel film è un politico israeliano, aiutato da Norman in un momento di difficoltà, che poi diventa primo ministro) e che poi da questi stessi potenti viene scaricato quando diviene motivo di imbarazzo.

La storia, sin dalla sua scansione in capitoli (“Il cavallo giusto”, “Il prezzo della pace”) vuole darsi un tono da racconto morale paradigmatico, ritratto d’un ambiente dai modi affettati ma al fondo deprecabile – in cui persino il rabbino perde le staffe per una questione d’affari. Ma se come apologo sull’esclusione il film suona eccessivamente programmatico, è memorabile invece Richard Gere, imbruttito e al suo meglio, che disegna un carattere enigmatico. Un uomo che aspira a un’ascesa sociale che gli è per forza di cose preclusa, perennemente fuori posto, come è chiaro sin dall’abbigliamento e dai modi insistenti e untuosi, sempre un tono al di sotto dell’eleganza e dello stile ricercato d’obbligo nel mondo degli affari.

Eppure Norman finisce per essere molto più che uno sconfitto megalomane: perché Richard Gere in quell’aria di incancellabile goffaggine inserisce da un lato una nota di malcelata disperazione, dall’altro di ambigua nobiltà, che lo fanno sembrare, alla fine, l’unico personaggio del film realmente disinteressato. E perciò migliore di tutti coloro che lo disprezzano. Così L’incredibile vita di Norman si trasforma quasi impercettibilmente in una parabola sulla solitudine e sulla dignità, non priva di un’amara ironia.