Si vorrebbe guardare Blade Runner 2049 dimenticando l’illustre predecessore, senza dover rapportare ogni inquadratura e situazione del film firmato da Denis Villeneuve al prototipo del 1982 di Ridley Scott. Ma troppo forte è la potenza iconica di Blade Runner, troppo decisiva l’influenza che l’architettura visiva di quel film ha impresso sul cinema distopico a venire, stabilendo canoni insuperati nell’immaginario fantascientifico e cyberpunk.
Non solo per la presenza di Scott quale produttore esecutivo – e dello stesso sceneggiatore, Hampton Fancher, coadiuvato da Michael Green –, Blade Runner 2049 è un sequel fedele all’originale, di cui costituisce una variazione, o persino un remake, riadattato allo stile ambizioso, corposo di Denis Villeneuve, che sottolinea la filiazione tramite la presenza di personaggi che ritornano e cripto-citazioni, dalle musiche (notevole il lavoro di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer) a elementi come l’origami.
La storia è quasi la medesima: trent’anni dopo il 2019 in cui era ambientato Blade Runner – tratto dal romanzo Il cacciatore di androidi di Philip Dick – ritroviamo la stessa Los Angeles notturna, mortifera, brulicante di gente che s’intuisce disperata e giganteschi ologrammi che promettono consumi e un’ingannevole felicità. In questo scenario si muove un altro cacciatore di replicanti – replicante a sua volta – dal nome kafkiano di agente K (Ryan Gosling), il cui compito è scovare gli ultimi esemplari “difettosi” di vecchia generazione, che s’erano ribellati al loro destino di macchine al servizio dell’uomo. I nuovi modelli, creati dall’imprenditore mefistofelico Niander Wallace (Jared Leto), sembrano non avere lacune. Eppure qualcosa s’incrina nell’agente K, dalla memoria affiorano ricordi – difficile capire se reali o impiantati – che gli creano dubbi sul proprio passato e identità. Così s’incammina lungo le tracce d’una storia vecchia di trent’anni e d’un altro cacciatore d’androidi, Rick Deckard (ovviamente Harrison Ford), per trovare risposta alle sue inquietudini.
Come Star Wars, Blade Runner 2049 è un film sulla famiglia, su legami che, persino per delle macchine, restano di sangue. E come Star Wars è una storia dai toni quasi millenaristici di prescelti che segnano una miracolosa discontinuità, e una speranza, in una realtà dai contorni apocalittici, in cui una città come San Diego è diventata l’enorme discarica di Los Angeles e crudeli personaggi dickensiani sfruttano ragazzini ridotti a mano d’opera d’accatto.
L’impaginazione visiva raggiunge vette di bellezza magniloquente, abbacinante – l’apporto del direttore della fotografia Roger Deakins è fondamentale – e dichiara la sua dipendenza non solo dal capolavoro di Scott, ma dall’intero vasto immaginario che lo precede – di qui le apparizioni di brandelli di passato che suonano struggenti e malinconici, Sinatra, Elvis, Marilyn.
Denis Villeneuve aggiunge un tono meditativo che asciuga il thriller, raffredda l’azione e si dirige al cuore insieme intimo e filosofico del racconto, pieno di interrogativi sui misteri della natura umana, nascita, identità, memoria, spiritualità – in questo più in linea con le ambizioni metafisiche del romanzo di Dick. E racconta un’impossibile storia d’amore tra una macchina e un ologramma, raggiungendo vette d’insospettabile romanticismo nel più singolare e inventivo rapporto sessuale visto nel cinema recente. Blade Runner 2049 è, al fondo, un film incoercibilmente umanista.