Napoli, per loro stessa ammissione, mette di buonumore i Manetti Bros. e ne accende la vena creativa, come dimostra, dopo il fortunato Song ’e Napule, il “crime musical” Ammore e malavita, con cui hanno anche partecipato per la prima volta in concorso al festival del cinema di Venezia.
Stimolati dalla nutriente ambientazione partenopea, Marco e Antonio Manetti hanno costruito uno spettacolo rutilante, che procede per divertita accumulazione di sparatorie personaggi sentimenti canzoni. Napoli però non costituisce solo un serbatoio di emozioni, ma un reagente che ha stimolato nei cinefili Manetti Bros. una fame bulimica di generi e stili narrativi, messi insieme per dare vita alla variegata partitura di Ammore e malavita.
Basta l’invenzione dell’incipit per capirlo, col morto ammazzato che canta nella bara lamentandosi del fatto che non conosce gli intervenuti al funerale. Questo perché, approfittando della somiglianza col boss don Vincenzo (Carlo Buccirosso), è stato fatto fuori per far credere che il criminale fosse morto. Quest’ultimo vuole cambiare vita insieme alla moglie Maria (Claudia Gerini, che supera la sfida del ruolo in napoletano), ma purtroppo l’infermiera Fatima (Serena Rossi) lo riconosce e bisogna ucciderla. Però il killer designato, Ciro (Giampaolo Morelli), scopre che la ragazza è la fidanzatina dei suoi innocenti 15 anni. I sentimenti mai sopiti sono più forti della fedeltà al clan: e la missione di Ciro diventa salvare Fatima.
Ammore e malavita è uno sbrigliato pastiche nel quale i generi s’incastrano uno nell’altro: action e thriller tra Tarantino e Hong Kong, heist movie, e soprattutto – ecco Napoli – sceneggiata e film di malavita anni Settanta (con presenza iconica di Pino Mauro in un siparietto di kitsch sfrenato, trasferta newyorkese e contrabbandieri col motoscafo). Il tutto frullato e riletto in chiave musical, con la canzone napoletana a farla da padrone, dallo stile neomelodico duro di Franco Ricciardi (anche interprete) al dub di Raiz (che ha un ruolo fondamentale, cavandosela bene) alla melodia tradizionale di Serena Rossi (che si lancia anche in una buffa rilettura di What a feeling da Flashdance).
Inevitabile che alla fine questo sovraccarico produca un film squilibrato, troppo lungo e con alcuni elementi dissonanti (uso eccessivo di ralenti, timelapse, split screen). Ma i difetti sono ben mascherati da un ritmo che travolge suonando una tastiera ricchissima di emozioni: il sentimentalismo adolescenziale della coppia Morelli-Rossi, l’ironia recitata di Buccirosso-Gerini (secondo il sempiterno modello della napoletanità come teatralità), la durezza criminale dei duetti Raiz-Morelli e dei tanti morti ammazzati.
Da Ammore e malavita non bisogna attendersi una riflessione sull’identità napoletana: quelle sono ossessioni per autoctoni, che ai romani Manetti Bros. non possono interessare – anche se c’è un numero musicale satirico niente male su Scampia ridotta a stereotipo e messinscena della violenza. Piuttosto nel film c’è un uso della napoletanità come inesauribile enciclopedia di generi, stili narrativi, suoni, che dànno vita a un racconto d’amore e morte insieme drammatico, divertente, romantico, che trascina e fa ridere nello stesso momento in cui commuove e spaventa.