Mia madre, il film diretto da Nanni Moretti trasmesso in prima tv stasera su Rai Tre alle 21.15, chiude idealmente un ciclo che il regista romano, forse senza una precisa intenzione programmatica, ha intrapreso negli anni Duemila. Un ciclo dedicato alla famiglia, alla sua perdita, e all’elaborazione del lutto come passaggio necessario verso una più difficile maturità.
Dopo gli appunti autobiografici dei diari in pubblico degli anni Novanta, Caro diario (1993) e Aprile (1998), venati di amarezza ma ancora tutto sommato felici e, se non ottimistici, reattivi, il nuovo millennio segna per Moretti una modalità più sofferta di chiusura nel privato, scandito dalle tappe della scomparsa d’un figlio (La stanza del figlio, 2001), del padre (che in Habemus Papam, 2011 assume le fattezze del “santo Padre”), e per ultima, la più dolorosa forse, quella della madre.
Incastonato in mezzo a questo trittico un’opera apparentemente divagante, Il caimano (2006), che corrisponde alla fase dei girotondi, in cui Moretti più si è speso sulla scena pubblica per arginare il berlusconismo. Ma è un film che segna, in un certo senso, un’altra perdita, quella della centralità della politica, fulcro esistenziale per un uomo cresciuto negli anni Settanta, nel tempo delle ideologie, dell’obbligo dell’impegno e dei gruppi della sinistra extraparlamentare (sui quali pure Moretti sapeva già allora mantenere uno sguardo di lucida ironia).
Questo nuovo intimismo morettiano non è stato apprezzato sino in fondo, e talvolta alcune di queste opere, soprattutto l’esperimento di passaggio de La stanza del figlio, avevano un che di irrisolto. Eppure è difficile, in particolare con Habemus Papam e Mia madre, non cogliere i sinceri accenti di smarrimento di cui questi film si fanno portatori, manifestando una sofferenza sì privata, individuale, ma nella quale si ricapitolano dolori collettivi. Il che conferma la singolare capacità di Nanni Moretti, che appartiene a lui solo, di farsi senza nemmeno volerlo portavoce di una generazione – o perlomeno di una parte della società italiana, quella borghese, laica e di sinistra –, per la quale le sue pellicole hanno rappresentato una sorta di autobiografia collettiva (e anche autoanalisi: c’è più d’uno psicanalista nel suo cinema).
Con pudicizia in Mia madre Moretti si fa persino da parte, confinandosi nel ruolo di Giovanni, il fratello della protagonista Margherita (Margherita Buy), regista sfiduciata alla prese con un film inevitabilmente impegnato, che vorrebbe parlare della crisi del lavoro e però lo fa raccontando, come fossimo ancora negli anni Settanta, la condizione operaia, invece delle nuove precarietà dell’economia globalizzata. Per cui forse non ha tutti i torti Barry (John Turturro), l’attore americano che si lamenta – certo anche per mascherare la sua impreparazione cronica – dell’improbabilità dei dialoghi che gli viene chiesto di recitare, lui che deve interpretare la parte di un nuovo inflessibile padrone di fabbrica.
Ma anche Barry nasconde una debolezza, una sua sofferenza segreta. E lo stesso fa Margherita, palese doppio morettiano (impressionante la Buy nella sua riproduzione dei tic del regista) che cela il dolore privato della madre Ada (Giulia Lazzarini) che sta ormai morendo. Ha capito meglio la situazione Giovanni, ingegnere che ha scelto di mettersi in aspettativa dal lavoro per stare accanto alla mamma, e che forse ha deciso di cambiare profondamente la propria vita. Perché la morte è un mistero che squarcia la regolarità dell’esistenza e col suo vuoto obbliga a ripensarla completamente, a partire dalla fine.
Sorprendentemente però il film, che è certo mesto nel raccontare l’avvicinamento alla morte, custodisce un nucleo di speranza. Un sentimento ostinatamente rivendicato da Margherita, che a proposito del suo film dichiara: “Non è triste, è pieno di energia e di speranza”. E da Ada, che alla domanda della figlia, “Mamma, a che stai pensando”, risponde, sebbene prossima al commiato: “A domani”.
Mia madre è una grande ricapitolazione di tutto il cinema di Moretti: c’è l’intermittenza del racconto di Caro diario e Aprile; l’onirismo freudiano di Sogni d’oro (gli incubi di Margherita che si mescolano con la realtà); il cinema nel cinema de Il caimano; il dolore del lutto paventato ne La stanza del figlio; la perdita della memoria (e della politica) di Palombella rossa. Persino la morte della madre Moretti l’aveva già girata, ne La messa è finita. Eppure nulla ha il sapore del dejà vu. È come se, grazie alla forma più distesa e meno nevrotica di un film sconsolato ma non sconfitto, il regista fosse riuscito a filtrare, rinnovandolo, il suo universo poetico. Riemergendone, alla fine, più somigliante a Giovanni che a Margherita.
Mia madre (2015) di Nanni Moretti, con Margherita Buy, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, John Turturro, stasera in prima tv su Rai Tre, ore 21, 15.