Barry Seal, tornano gli anni Ottanta con l’antieroe Tom Cruise

Ascesa e caduta di un pilota d’aereo che s'arricchì contrabbandando armi per la Cia e droga per i narcotrafficanti. Tratto da una storia vera, il film di Doug Liman racconta con toni picareschi un’epoca euforica, all’insegna dall’edonismo reaganiano. Ma la satira resta di superficie.

Barry Seal – Una storia americana con Tom Cruise, recensione

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C’è un che di ironico nel fatto che a interpretare l’antieroe Barry Seal, il (realmente esistito) pilota d’aereo che a cavallo tra Settanta e Ottanta creò un piccolo impero trasportando armi (per la Cia) e droga (per i narcotrafficanti colombiani), sia Tom Cruise, il top gun che dell’euforia degli anni di Reagan (nel film fa capolino più d’una volta) fu un simbolo, con la sua aria guascona, vincente ed eternamente sorridente.

Continua a sorridere Tom Cruise anche in Barry Seal – Una storia americana (American Made, 2017), in cui sigilla le rocambolesche avventure d’un self made man del crimine col perenne ottimismo di chi del mondo coglie le sfrenate opportunità di guadagno e mai il significato più profondo d’una esistenza moralmente allo sbando.

Nel film di Doug Liman, che ha già diretto Cruise in The Edge of Tomorrow (annunciato insieme anche un prossimo Luna Park), Barry Seal viene raccontato come il perfetto esemplare della sua epoca: buon padre di famiglia, bellissima moglie-Barbie, pilota d’aereo di linea che per scommessa e irrefrenabile avidità si fa trascinare in un’avventura più grande di lui. La Cia lo assolda per missioni spionistiche nell’ultima fase della Guerra Fredda – scattare fotografie nelle basi militari dei paesi del Centro America – e anche per trasportare armi destinati ai Contras antisandinisti (compare pure Oliver North, il colonnello del famigerato scandalo Iran-Contras).

Disinibito imprenditore di se stesso, Barry non si accontenta, e si mette a trasportare droga per il nascente cartello di Medellín di Pablo Escobar. La Cia, ovviamente, sa tutto, ma i servigi del pilota spericolato sono troppo importati per farlo arrestare. Gli affari di Barry vanno a gonfie vele: l’unico problema è dove stipare l’enorme quantità di contante che guadagna.

Barry Seal punta tutto sul tono da paradosso, raccontando senza zavorre moralistiche e con il morso della satira un’epoca etichettata come felice – l’edonismo reaganiano – e invece oscura, e un paese che tende troppo all’autorappresentazione soddisfatta di sé. Che è appunto sintetizzata dall’americano sorridente cui dà vita di Tom Cruise. Il quale però, sebbene gli venga finalmente offerto un ruolo adulto dopo missioni impossibili, Jack Reacher e mummie varie, tende a interpretarlo senza sfumature e senza la necessaria consapevolezza tragica.

Che è in sostanza lo stesso problema del film. Doug Liman gioca in Barry Seal la carta del picaresco, ispirandosi visivamente a un cinema Settanta-Ottanta riletto con tocchi salaci alla Michael Moore (l’uso delle animazioni), e l’impiego di una prima persona – Cruise-Barry che commenta le sue imprese rivolgendosi direttamente allo spettatore – che rimanda a Martin Scorsese, senza riuscire però mai a restituire il senso di amarezza e di sciagura di una realtà destinata al collasso.

Barry Seal spreca in gran parte la straordinaria, paradigmatica storia di partenza, di cui segue minuziosamente gli snodi, non riuscendo ad abbinarvi un controcanto morale. Così si finisce per divertirsi con una vicenda spettacolare, incarnata da un protagonista accattivante, e però epidermico nel suo ritratto di simpatico gaglioffo.