L’infanzia di un capo, con Bérénice Bejo e Robert Pattinson, è un film d’autore troppo ambizioso (recensione)

Il giovanissimo Brady Corbet esordisce alla regia con un film ispirato a un racconto di Sartre. È la storia dell’educazione di un bambino che diventerà un dittatore. Opera di un talento autentico e visivamente affascinante, sembra però un film d’autore progettato a tavolino.

L’infanzia di un capo con Bérénice Bejo e Robert Pattinson

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Ambizioso è aggettivo che ricorre spesso nelle recensioni de L’infanzia di un capo (The Childhood of a Leader, 2015), esordio di Brady Corbet, neoregista americano nemmeno trentenne con passato d’attore per grandi autori europei, Haneke, Assayas, Lars von Trier, Östlund.

L’ambizione è palese: struttura saggistica a capitoli; titoli di testa su tre colonne, impaginati come un libro; colonna sonora ricercatissima di Scott Walker, tutta clangori e stridori; fotografia non naturalistica (di Lol Crawley) scolpita in toni cupi, con inquadrature di compostezza figurativa da pittura del Seicento; riferimenti letterari, dal racconto omonimo di Sartre cui il film s’ispira, ad autori esplicitamente citati come Arendt e Musil.

Protagonista il piccolo Prescott (Tom Sweet, giustamente inquietante), capelli da paggetto, che s’è trasferito coi genitori (Liam Cunningham e Bérénice Bejo) a Parigi, perché il padre è membro del corpo diplomatico americano che, terminata la Prima guerra mondiale, partecipa ai negoziati di pace. Durante le lunghe assenze paterne è soprattutto la madre a occuparsi del figlio. Che ha, nella scansione in parti de L’infanzia di un capo, tre immotivati atti di ribellione che creano apprensione nei familiari.

L’infanzia di un capo entra nel tessuto di quei soprassalti di violenza, disseminando tracce che permettano di comprenderli. C’è l’insoddisfazione d’una madre infelice che rifiuta la maternità; un padre poco presente e autoritario; la maturazione sessuale di Prescott, scambiato per femmina date le fattezze angeliche, mentre lui ha inequivocabili pulsioni dirette all’istitutrice; l’affetto d’una vecchia governante, così diversa dai freddi genitori; un amico di famiglia (Robert Pattinson), che forse destabilizza gli equilibri familiari; soprattutto, sullo sfondo, c’è la cornice storica del trattato di Versailles, con le durissime condizioni poste alla Germania sconfitta che condussero al collasso dell’economia del paese, favorendo l’ascesa di Hitler.

Ed è proprio un Hitler in nuce il piccolo Prescott, rabbioso e intelligente, destinato, come tratteggia l’effettistico finale, a divenire leader d’un movimento totalitario. Come può un bambino aggressivo diventare un dittatore? Il film non lo spiega, dispiega invece allusioni circa il modello educativo infelice cui è sottoposto il bambino. Creando un effetto allarmistico: perché forse la risposta alla domanda è che non esiste connessione diretta, il caso e il destino potrebbero esser più rilevanti di quegli accadimenti che cerchiamo di interpretare come determinati e che, invero, appartengono al percorso di crescita di tantissimi bambini.

L’infanzia di un capo non ha soltanto un’impaginazione visiva elegante, è capace di creare autentico disagio, senza sfociare mai nell’orrore esplicito. Cosi, più che a vecchi film horror con ragazzini (Il villaggio dei dannati, Il presagio), fa pensare, nella compostezza altoborghese del racconto, a Messaggero d’amore di Joseph Losey, romanzo di formazione ricco di sottintesi sessuali sulla perdita dell’innocenza d’un preadolescente educato alla vita come deludente infelicità.

Il film di Brady Corbet con Bérénice Bejo e Robert Pattinson lascia però perplessi: per la cifra autoriale esibita, il partito preso antispettacolare, l’intreccio di storia intima e grande Storia costruito ad arte per farlo sembrare – coll’argomentare allusivo che non dice mai niente di preciso – un pensoso apologo sui nostri tempi.