Una doppia verità, il legal thriller con l’avvocato Keanu Reeves (recensione)

Un processo disperato, con l’imputato che s’è autoaccusato dell’assassinio del padre. Siamo sicuri che abbia detto la verità? Un film che punta sull’ambiguità: ma i colpi di scena non sorprendono nessuno. Renée Zellweger inespressiva, per eccesso di chirurgia plastica.

Una doppia verità, legal thriller con Keanu Reeves

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Già il titolo, Una doppia verità, suggerisce che in questo legal thriller dal processo non emergerà “tutta la verità” (come recita il titolo originale, The Whole Truth) in un caso che sembra non riservare sorprese. L’imputato Mike Lassiter (Gabriel Basso) è reo confesso d’un crimine talmente efferato – l’omicidio del padre Boone con una pugnalata al petto – che, sebbene minorenne, verrà giudicato come un adulto.

Lo difende l’avvocato Richard Ramsey (Keanu Reeves), che deve vedersela con un assistito impenetrabile, che dopo l’autoincriminazione non parla più, neanche col proprio legale. Come in un noir d’altri tempi, la voce fuori campo di Ramsey ci spiega senza ipocrisie le regole di quella grande messinscena teatrale che è un processo, per spiegare quali sono gli elementi su cui puntare per vincere.

Primo, dimostrare con l’aiuto di Loretta (Renée Zellweger), madre dell’imputato e vedova dell’assassinato, che il marito (James Belushi) non era uno stinco di santo, manesco, puttaniere e anche peggio. Secondo, far intervenire un’assistente, donna e di colore (Gugu Mbatha-Raw), la cui presenza accanto al ragazzino può intenerire la giuria, convincendola che, dopotutto, l’accusato è un essere umano che merita comprensione; terzo, spiega Ramsey, incassare i colpi dell’accusa e poi contrattaccare, come Muhammad Alì con George Foreman a Kinshasa nel 1974.

Una doppia verità vuole essere un legal thriller torbido e a doppio fondo, ma scopre troppo presto le carte e si capisce immediatamente che quanto vediamo – con tanto di flashback esplicativi – non è, appunto, tutta la verità. Troppo ambigua la madre-vedova che difende il figlio e prende le distanze dal marito padre-padrone (il suo ritratto sgradevolissimo è vero o dipende dal modo in cui lo raccontano i familiari?); e desta perplessità lo stesso Ramsey, troppo intimo della famiglia di cui cura gli interessi.

Una doppia verità ha un gigantesco difetto: riproduce lo stesso meccanismo di Testimone d’accusa di Billy Wilder, nel quale la sentenza processuale non individuava l’autentico responsabile e c’era bisogno d’una coda extragiudiziale per ristabilire la verità e ottenere giustizia. Ma quello era un racconto enigmatico e raziocinante, con uno script a orologeria (da una pièce di Agatha Christie) che attori straordinari come Charles Laughton e Marlene Dietrich vestivano di sottile ambiguità. In Una doppia verità, ahimè anche per ragioni di chirurgia plastica, gli attori, da Keanu Reeves a un’inespressiva Zellweger, non riescono a inoculare tocchi disturbanti nel plot presunto a sorpresa servito dal regista Courtney Hunt e dallo sceneggiatore Nicholas Kazan (sì, è il figlio del sommo Elia).

Testimone d’accusa era uno sfiancante gioco dialettico. Perché in un autentico legal thriller è la parola l’effetto speciale, l’artificio che inganna, seduce, depista. In Una doppia verità, invece, proprio l’accusato non proferisce verbo. E il film soffre del suo mutismo, resta come lui senza parole, facendo immediatamente intuire che la verità non è quella cui stiamo assistendo. Così alla fine il supposto colpo di scena non sorprende nessuno. Un legal thriller che rimane in silenzio è destinato al fallimento, anche se l’avvocato è Keanu Reeves.