Addio a John G. Avildsen, il regista premio Oscar di Rocky e Karate Kid

È morto a 81 anni per un cancro al pancreas il “regista degli underdogs”, divenuto celebre per i suoi ritratti di perdenti che grazie al coraggio, lo sport e i legami affettivi, trovano la via per riscattarsi e conquistare la loro fetta di sogno americano. Nella sua lunga carriera ha diretto anche Jack Lemmon, Marlon Brando e John Belushi.

È morto John G. Avildsen, il regista di Rocky e Karate Kid

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È morto a 81 anni per un cancro al pancreas John G. Avildsen, il regista divenuto celebre con Rocky (1976) e con la trilogia negli anni Ottanta di Karate Kid, che di Rocky è un remake in versione adolescente.

Ma c’è molto altro nella carriera di Avildsen, che era nato a Oak Park, in Illinois, nel 1935 e s’era fatto le ossa come direttore della fotografia e assistente alla regia per autori del calibro di Otto Preminger (E venne la notte, 1967). Poi il passaggio dietro la macchina da presa nel 1969, con Turn on to love. Il primo film importante fu nel 1970 La guerra privata del cittadino Joe, con un memorabile Peter Boyle nella parte d’un operaio conservatore e razzista che fa di tutto per ritrovare la figlia rifugiatasi in una comunità hippy, in un film che fotografa, ad apertura di decennio, gli anni Settanta di un’America carica di tensioni. Dopo un paio di film di valore altalenante (Ore 10 lezione di sesso, Il pornocchio), Avildsen si mette in luce con Salvate la tigre (1973), altro ritratto problematico d’un americano reazionario alle prese con tempi che fatica a capire, un ruolo col quale il protagonista Jack Lemmon vinse il suo secondo Oscar.

“Quando incontrai Lemmon per la prima volta – ricordava in una recente intervista John J. Avildsen – avevo capelli e barba lunga, e dei jeans di velluto blu con delle margherite stampate sul retro. Gli spiegai che se avesse scelto me per dirigerlo, avrei fatto di tutto per non vedere lui nel film. Nel senso che non volevo vedere il suo manierismo, quello stile che aveva maturato negli anni e nel quale si sentiva a proprio agio. Volevo vedere il personaggio, non Jack Lemmon”.

John G. Avildsen insieme a Sylvester Stallone sul set di Rocky.

Dopo Un uomo da buttare (1975) con Burt Reynolds, che appartiene a quel filone aperto da American Graffiti che puntava decisamente sulla nostalgia per un’America provinciale più semplice e sincera, arriva il terremoto di Rocky, un film dal piccolo budget che diventa un successo da oltre 200 milioni di dollari, capace di lanciare Sylvester Stallone nell’empireo delle star di Hollywood e di raccogliere ben tre Oscar, tra cui quello per il miglior film e per la regia allo stesso Avildsen. Il pubblico, in una stagione di confusione politica e morale del paese, si appassionò alla storia del pugile Rocky Balboa, un “underdog”, un perdente designato che si riscatta grazie al suo coraggio, la fiducia nei valori semplici, la forza dei legami affettivi (la compagna e l’allenatore). “Quando un vecchio amico mi fece leggere la sceneggiatura – ricordava John G. Avildsen in un’intervista – gli dissi che a me la boxe non interessava, la trovavo una cosa stupida. Lui insistette e alla fine lessi lo script. Alla seconda o terza pagina, Rocky parlava con le sue tartarughe: restai affascinato dalla cosa e pensai che si trattava di un eccellente studio su un personaggio, e di una bellissima storia d’amore. E allora accettai di dirigerlo”.

Avildsen con l’Oscar vinto per la regia di Rocky.

Dopo questo enorme successo Avildsen si prese il lusso di dirigere nientemeno che Marlon Brando ne La formula (1980), un thriller fantapolitico piuttosto pasticciato che prendeva spunto dalla crisi petrolifera, seguito l’anno dopo da I vicini di casa, l’ultimo film di John Belushi, commedia molto sottovalutata che ribalta i ruoli dei protagonisti, trasformando il sulfureo Belushi in un borghese benpensante e il wasp Dan Aykroyd in un figuro insinuante e minaccioso – il colpo di genio del film che però ne decretò il flop.

John G. Avildsen si risollevò rapidamente con l’altro grande successo della sua carriera: Karate Kid, una trilogia tra il 1984 e il 1989 che era ancora una volta la storia di un perdente, l’italoamericano proletario Daniel LaRusso interpretato da Ralph Macchio, che sempre grazie allo sport si prende la sua fetta di sogno americano e guadagna il rispetto della comunità, aiutato dall’indimenticabile mentore tratteggiato da Noriyuki Pat Morita.

Avildsen insieme ai protagonisti di Karate Kid, Elisabeth Shue e Ralph Macchio.

Così da allora John G. Avildsen è diventato il regista degli underdogs, come recita anche il titolo del documentario che gli è stato dedicato da Derek Wayne Johnson nel 2016, John G. Avildsen: King of the Underdogs. Anche perché il regista tornò al suo perdente preferito nel 1990 per Rocky 5, quando Stallone lo chiamò per ritrovare lo spirito originario del personaggio dopo la sbornia degli anni Ottanta in cui era stato trasformato nell’eroe della propaganda reaganiana da guerra fredda.

Dopo di allora la carriera di Avildsen continuò in tono minore, con un altro pugno di titoli tra cui il migliore è probabilmente La forza del singolo (1992), nel quale ancora una volta sono la boxe e gli insegnamenti di un mentore di colore, Morgan Freeman, a dare la forza a un orfano inglese finito nel Sudafrica razzista per rialzare la testa e, da adulto, contrastare l’apartheid. John G. Avildsen ha amato storie a tinte forti di sentimenti e intrecci spesso elementari, talvolta trovando delle note di acuta sincerità, talvolta sbandando verso il qualunquismo, in racconti però sempre pieni di spunti in linea con la complessità dell’epoca (il razzismo, nuovi costumi sessuali, la regressione nella nostalgia). Resta un significativo rappresentante di quella stagione del cinema americano degli anni Settanta che cercò di emanciparsi da Hollywood, sperimentando dalla sponda newyorkese nuovi modelli produttivi e nuove storie, di cui proprio Rocky costituì se non l’apice qualitativo, l’esemplare di maggiore successo.