King Arthur – Il potere della spada, l’epica dei cavalieri trasformata in un mediocre fumetto fantasy

Il costoso film di Guy Ritchie con Charlie Hunnam rilegge la storia di Re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda. Invece del fascino del meraviglioso medievale ci sono troppi effetti speciali, che spengono la fantasia invece di stimolarla. E arriva la bocciatura del botteghino.

King Arthur - Il potere della spada con Charlie Hunnam

INTERAZIONI: 15

Dopo un’uscita  prevista inizialmente a metà 2016, King Arthur – Il potere della spada di Guy Ritchie con Charlie Hunnam (costo 175 milioni di dollari) è giunto al lancio mondiale nella prima metà di maggio 2017. Tanta attesa non ha portato bene al film, che dopo il primo weekend s’è già guadagnato l’appellativo di primo grande flop della stagione, con un incasso sul mercato statunitense di appena 14 milioni di dollari e una trentina su quello internazionale. Così di epico nella nuova versione della storia di re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda sembra esserci solo il fallimento, che mette decisamente in forse l’idea di dar vita all’ennesimo franchise.

La storia reinterpreta a dir poco liberamente la vicenda del ciclo arturiano, tante volte portato sullo schermo, da Disney alla rilettura ecologica di John Boorman, sino ai raffinati Bresson e Rohmer. In King Arthur il bambino Artù viene salvato dal padre, il re Uther Pendragon (Eric Bana), che lo sottrae alle grinfie del malvagio fratello Vortigern (un Jude Law di sadismo scespiriano), che l’ha detronizzato. Il piccolo cresce orfano a Londinium e la scuola della strada lo trasforma in un criminale, gestore d’un bordello e capo carismatico d’una banda di simpatici malfattori. Ma il suo destino è un altro. Artù riesce a estrarre la spada magica del padre dalla roccia nella quale è conficcata dal giorno della morte del re. E sebbene faccia di tutto per rifiutare il ruolo che l’alto lignaggio gli assegna per natura, grazie all’aiuto di una maga (Àstrid Bergès-Frisbey) e d’un gruppo di partigiani  accetta alla fine l’investitura e sferra da condottiero dei ribelli l’attacco contro Vortigern.

In King Arthur – Il potere della spada Guy Ritchie inietta il suo stile veloce e adrenalinico (marchio di fabbrica dai tempi del brillante Lock & Stock), ma stavolta non gli riesce l’operazione, andata a segno col dittico di Sherlock Holmes, di disinibito aggiornamento stilistico di un classico adattato ai gusti del pubblico contemporaneo. Colpa certamente anche del protagonista Charlie Hunnam, né carismatico né particolarmente accattivante. Ma è tutto il film a non funzionare, con la sua scontata traduzione del meraviglioso della letteratura cavalleresca nella fantasmagoria di effetti speciali che ingombrano un racconto il cui tono, alla fine, occhieggia inevitabilmente al vocabolario fantasy impostosi nell’ultimo quindicennio (dal Signore degli Anelli a Game of Thrones).

In King Arthur il protagonista si oppone al suo destino manifesto, apparentemente per egoismo. Ma le vere ragioni sono legate a insicurezze e traumi che potranno essere risolti solo entrando in contatto con le proprie paure – in un percorso di apprendistato da svolgersi, secondo un topos caratteristico dei racconti cavallereschi, attraversando lo spazio simbolico altro e pericoloso del bosco. Ma questo aspetto – l‘uomo in lotta con se stesso -, così come tutta l’enfatica battaglia finale, è raccontato senza sottigliezze, con un gusto della narrazione gridato e posticcio capace, per una volta, di mettere d’accordo critici e pubblico. Che l’hanno sonoramente bocciato.