Song to Song, Terrence Malick fa ormai sempre lo stesso, brutto film

Il grande regista da anni s'intestardisce in un cinema dallo stile sublime e pretenzioso. Inquadrature inutilmente preziose, attori messi in posa a pronunciare sentenze altisonanti. In "Song to Song" sembrano ridicoli persino Michael Fassbender, Ryan Gosling e Rooney Mara.

Song to Song, il nuovo film di Terrence Malick

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Si potrebbe comporre un bel florilegio con le frasi di Song to Song, il nuovo film di Terrence Malick. Brani di dialogo o più spesso brandelli dei flussi di coscienza dei protagonisti, che in voice over riflettono pensosi su se stessi, i sentimenti, il senso della vita: “Pensavamo di poter vivere solo di canzone in canzone, di bacio in bacio“; “Amo la tua anima”, “Volevo che tutto quel dolore avesse uno scopo”; “Non lo sai che fa male andare in giro a fare incantesimi alla gente”, “Devo ricominciare da capo, come un bambino”.

Sono sentenze che mimano profondità esistenziale, recitate da attori i quali, obbligati dall’impalpabile sceneggiatura che li abbandona a se stessi, le pronunciano restando sempre in posa, rapiti dai trasalimenti e dalle grandi verità snocciolate impudicamente. La memoria riporta al celebre “Mi fanno male i capelli” de Il deserto rosso di Antonioni, cui talvolta fa pensare – sotto il profilo formale – il Malick di Song to Song (e dei suoi film da The Tree of Life in poi). L’Antonioni più discutibile dei personaggi languidi ma interiormente macerati che sfioravano pareti o scambiavano frustranti baci col vetro a separare gli amanti.

Son tutte cose che succedono anche in Song to Song, però estremizzate da uno stile mortifero, talmente ripetitivo (inquadrature grandangolari, montaggio “poetico” illogico e capriccioso) da essersi trasformato nella parodia d’uno stile (cui contribuisce molto il celebrato direttore della fotografia Emmanuel Lubezki).

Tutto è perennemente sublime in Song to Song: le espressioni di protagonisti che non restituiscono mai un’emozione specifica, circonfusi invece di un’aura stralunata, posseduti da chissà quale squassante, definitivo turbamento; le immagini sempre laccate, che ritraggono un mondo benestante di ville che paiono eternamente disabitate, linde, lucidissime, distanti (e in fondo mortuarie).

Nel mentre si svolge (diciamo così) una storia: BV (Ryan Gosling) musicista di grande talento (ci crediamo sulla parola, nulla nel film lo testimonia), ama Faye (Rooney Mara), cantautrice che vorrebbe sfondare. Lei però è la donna di Cook (Michael Fassbender), discografico mefistofelico e corrotto, che la getta tra le braccia di BV, eccitato dalla situazione perversa. Il triangolo si trasforma poi in un rondò di passioni etero e omo, cui partecipano anche Natalie Portman e Cate Blanchett (completamente sprecate).

Song to Song passa a volo d’angelo sui fatti, preferendo radiografare emozioni sussultorie, struggimenti esistenziali, senza mai raccontare veramente qualcosa. La scena musicale di Austin in cui è ambientata la vicenda resta uno sfondo distante, restituito sbrigativamente senza la minima curiosità per la concretezza della realtà. Al massimo ci sono comparsate di musicisti, da John Lydon a Patti Smith – cantanti famosi, attori famosi, il disinteressato e appartato Malick è sinistramente sedotto dalla celebrità.

Innamorato dell’assoluto e dell’eterno, Terrence Malick non può perder tempo coi banali dettagli del quotidiano, che oltretutto potrebbero corrompere il suo alto disegno filosofico e costringerlo a misurarsi con veri personaggi e una vera storia. Cose prosaiche, per un artista che da anni s’interroga solo sul mistero della vita, l’origine e la fine del mondo.