Boncompagni e la sublime leggerezza. La Comunicazione nel segno del fanciullino

La sua e dei suoi complici era la tv della spensieratezza. Una carriera di intuizioni ed esperimenti con due ingredienti fondamentali: sorriso e semplicità.


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Si stanno dicendo cose troppo belle o troppo brutte su Gianni Boncompagni. La morte è così, partono i santini, i menefrego e gli anatemi. Parlano gli amici, i veri e i finti, quelli che ci hanno lavorato e quelli che avrebbero voluto.
A questo coro aggiungo il ricordo di chi è stato semplicemente raggiunto dalle cose che faceva, che le ha guardate e ne ha sorriso, senza esserne particolarmente coinvolto, il mio.

Boncompagni è stato un simpatico tizio che, come ha detto Arbore, si è divertito per molti dei suoi 84 anni. Divertendosi lui, ha fatto divertire anche qualcun’altro. È un’ottima sintesi ed un merito enorme per chi riesce a farne anche un mestiere.

Sarà ma tutte le volte che ho guardato Boncompagni, nelle sue interviste, nelle foto, negli spettacoli, qualsiasi età avesse in quei momenti, ho sempre notato quello sguardo da bambino simpatico. È come se ne fosse stato sempre abitato, scorgevo in lui una presenza magica che gli faceva capolino dagli occhi e che non gli ha mai consentito di invecchiare.

È parere condiviso (anche da lui, orgogliosamente) che i suoi progetti non spiccassero per un permeante tormento culturale. Una valutazione di fatti poco discutibile. Ma chi cerca la bellezza solo nell’alto si perde quella che viene da altre direzioni. Io, scarso frequentatore dell’alto,  non me la perdo e a Boncompagni riconosco di avermi lasciato piccoli capolavori di intelligente leggerezza, di etereo menefreghismo e di una certa sublime, fanciullesca perversione. Pronti e consumabili come pizzette al volo. Nessuna apparente complessità da spiegare. Tutto talmente leggero da divenire a volte surreale, interpretabile, artistico.

Un monitor muto, schiere di ragazzine che ballano scomposte, una ballerina di Siviglia che rotea dinanzi a una telecamera, una sigla di Discoring con Stefania Rotolo che balla con le zeppe, una smorfia di Bracardi ad Alto Gradimento, il sorriso di Ambra, Sordi che tocca il ginocchio di una bellissima Carrà in bianco e nero, è un installazione artistica che vedrei bene al MOMA di New York. Un linguaggio universale di immediatezza, indelebili gif animate consegnate nei decenni a milioni di umani che le hanno salvate per sempre con nome.

Gianni Boncompagni è stato un po’ come il compagno di scuola che dall’ultimo banco dissacra le liturgie di classe, che prende un po’ in giro i professori, che commenta i vestitini delle ragazze e lancia gli aeroplanini di carta. Quello che ci ricorda che l’invecchiamento è un fatto cellulare ma non mentale, che prendersi sul serio fa malissimo e che si può giocare sempre, soprattutto facendo televisione e comunicazione. Un rivoluzionario? Può darsi, però suo malgrado, senza impegno.

In questo sogno di levità, Boncompagni ha avuto probabilmente i compagni migliori, come predetto dal suo cognome. Persone che se ne stanno nella nostra memoria in un’area protetta di soavità, che quando li pensi sorridi. Arbore, Carrà, Bracardi, le ragazze di Non è La Rai, Marenco, e tanti altri.

La fortuna sua e probabilmente nostra, ha voluto che ci fossero le condizioni politiche, imprenditoriali, mediatiche perché i suoi esperimenti da fanciullino diventassero realtà e tirassero sassolini alle vetrate dei nostri sistemi di pensiero, facendoci sorridere, rilassare e pensare meno.