Ghost in the Shell, Scarlett Johansson eroina cyberpunk in un film visivamente affascinante

Remake di un anime cult giapponese, il film di Rupert Sanders è stato un flop al cinema. Colpa delle polemiche legate alla scelta di un'attrice bianca per un personaggio orientale. Il film però è meglio di quanto non si dica. E l'interpretazione inespressiva della Johansson è in linea con un personaggio metà macchina, metà essere umano.

Ghost in the Shell, Scarlett Johansson eroina cyberpunk

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Ghost in the Shell racconta la storia del Maggiore Mira, un cyborg con un’intelligenza umana (il “ghost”, l’anima del titolo) alloggiata in un involucro interamente artificiale (“shell”). Ma è più di una macchina: è “un’arma”, come la definisce il dirigente dell’Hanka Robotics, la potente multinazionale alle dipendenze della quale lavora il corpo speciale di sicurezza sulle tracce di un pericoloso terrorista cibernetico.

Il Maggiore è l’agente migliore, grazie alla sua duplice natura potenziata di essere umano robotizzato. Che però le pone assillanti interrogativi, perché dalla sua memoria lacunosa affiorano tracce d’un passato nebuloso, d’un tempo nel quale non era una macchina: ma chi era? E cosa è precisamente adesso?

Ghost in the Shell è la versione live-action, prodotta dalla Dreamworks di Steven Spielberg, di un classico del fumetto giapponese del 1989 di Masamune Shirow, poi trasposto nel 1995 in film d’animazione da Mamoru Oshii (ci sono state anche serie televisive, romanzi, videogame), dichiarata fonte d’ispirazione del Matrix dei Wachowski.

Per questa ragione, non appena fu annunciato che Scarlett Johansson sarebbe stata l’eroina cyberpunk del Ghost in the Shell americano diretto da Rupert Sanders (Biancaneve e il Cacciatore), scattarono le accuse di “whitewashing“. Perché sebbene la storia resti interamente ambientata in Giappone, con personaggi di contorno asiatici, tutti i protagonisti diventano bianchi. Non solo il Maggiore-Johansson: anche il dottor Ouelet (Juliette Binoche), lo scienziato che l’ha creata, il poliziotto Batou (Pilou Asbæk), il terrorista Kuze (Michael Pitt), mentre l’unico giapponese è il capo della sicurezza (il regista-attore Takeshi Kitano, un piacere rivederlo).

Per quanto la scelta sia certamente legata a ragioni produttive e a comprensibili strategie di marketing – per un film costato ben 110 milioni di dollari -, è naturale che ne siano state subito messe in luce le delicate implicazioni politiche, potenzialmente discriminatorie – l’effetto delle polemiche si è visto subito, il film negli Stati Uniti ha incassato solo 18 milioni nel primo weekend.

Il personaggio di Mira, oltretutto, non è semplicemente di pelle bianca: è asessuata, quasi inespressiva, sembra l’inquietante risultato di un processo eugenetico che mira a una perfezione artificiale, che coincide con un essere assolutamente puro, privo di tratti connotativi spiccati – infatti in un’intervista la Johansson l’ha descritto come “senza identità“. In questo senso la scelta di casting è felice, perché ripercorrendone i ruoli recenti, la Lucy di Luc Besson, l’aliena killer di Under the Skin, la voce sintetica di Her, Scarlett Johansson è l’attrice che più di ogni altra sta dando forma con le sue interpretazioni a un’identità femminile di nuovo conio, ambigua e problematica, all’altezza di una contemporaneità non poco enigmatica. E il personaggio dell’eroina cyberpunk di Ghost in the Shell trova facilmente spazio in questa singolare galleria di ritratti.

L’identità in effetti è il tema intorno al quale ruota Ghost in the Shell. Che eredita dall’originale giapponese le questioni relative al rapporto tra mente e corpo (classica questione filosofica), tra spirito e macchina (propria del cyberpunk), tra memoria e comportamento (siamo ciò che ricordiamo o quello che facciamo, si chiede il Maggiore?). A questi si aggiunge un’ulteriore, spinoso interrogativo, sollecitato dal filtro sbiancante della versione americana, che spinge a riflettere sugli stereotipi sui quali fanno leva le culture – nello specifico quella bianca e occidentale – per dare forma a storie che rispecchino pregiudizi e attese del pubblico a cui si indirizzano.

Quello che si può imputare a Ghost in the Shell è di diluire eccessivamente il sostrato filosofico della vicenda e di non trovare delle risposte all’altezza dei suoi temi impegnativi (tra macchina e spirito alla fine la preferenza va semplicisticamente a quest’ultimo, unica salvezza all’omologazione imperante). Ma del film è molto più importante il come del cosa: ed è nella confezione che Ghost in the Shell trova una complessità in linea coi suoi interrogativi, tradotti nell’immediatezza visiva di immagini stratificate, sovraccariche di ologrammi, corpi evanescenti, fantasmi, con marchingegni tecnologici ed effetti speciali ad affollare inquadrature ricchissime di segni e suggestioni, e quindi sorprendentemente ambigue – come ambigui sono gli sguardi metallici, vuoti, di Scarlett Johansson.

Restano palesi i richiami e i calchi, non solo del Ghost in the Shell giapponese, ma anche di Blade Runner (la metropoli avveniristica), Matrix, Robocop. Ma l’insieme possiede una tale densità visiva da riscattare certe semplificazioni narrative, dando vita a un pensiero più complesso di quanto sembri, che affiora quasi naturalmente dalle immagini.