Moonlight, la recensione del film che potrebbe sfilare l’Oscar a La La Land

Diviso in tre capitoli, infanzia, adolescenza, maturità, il film di Barry Jenkins racconta la vita di un afroamericano cresciuto nel ghetto, discriminato perché omosessuale. Con 8 nomination e tanti premi già vinti, "Moonlight" è la sorpresa cinematografica dell'anno.

Moonlight di Barry Jenkins è uno dei favoriti agli Oscar

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Moonlight di Barry Jenkins è uno dei grandi favoriti agli Oscar del 26 febbraio, con le sue 8 nomination, che lo rendono il principale competitor di La La Land, visti anche i moltissimi riconoscimenti vinti, tra cui il Golden Globe come miglior film drammatico.

Ispirato a una pièce di Tarell Alvin McCraney, il film è un denso romanzo di formazione che sposa tematiche black e queer. Moonlight è strutturato in tre capitoli – infanzia, adolescenza, prima maturità – che seguono lungo l’arco d’un ventennio la vita del protagonista Chiron. Cresciuto nella povertà dei ghetti neri di Miami (gli stessi di McCraney e Jenkins), non ha padre e la madre è una tossicomane (Naomie Harris) incapace di accudirlo. Intorno ai dieci anni intuisce la sua diversità sessuale. L’intuiscono pure i ragazzini del quartiere, che lo perseguitano chiamandolo “frocio”. “Cosa vuol dire frocio?”, chiede Chiron a Juan (Mahershala Ali, iconico), uno spacciatore che con lui ha un atteggiamento paterno, accogliendone i silenzi impauriti e aiutandolo ad acquisire rispetto per se stesso (la scena suggestiva in cui gli insegna a nuotare ricorda curiosamente una sequenza d’analogo significato in Ladro di bambini di Amelio).

Stacco: Chiron è adolescente, sempre incastrato in periferia, ormai consapevole della propria sessualità e per questo vittima dei bulli della scuola. Juan, inutile dirlo, ha fatto una brutta fine. È il tempo della prima esperienza omosessuale e di scelte drammatiche che ne condizioneranno il futuro. Che nel terzo capitolo si manifesta attraverso le fattezze del Chiron adulto, spacciatore, corazzato da muscoli che lo difendono dalla vita, ma al fondo ancora emotivamente insicuro. Dopo anni incontra la persona con cui ebbe il primo rapporto sessuale, un passaggio attraverso cui ricapitolare la propria storia e forse trovare la forza per darle una piega diversa.

Ghetto, droga, una comunità nera sigillata nei propri confini (non compare un solo bianco in Moonlight), tra degrado e conflitti esplosivi: gli ingredienti ideali per un film d’impegno civile. Barry Jenkins, invece, opta per uno stile liricizzante, che non arretra davanti alla brutalità, ma la filtra in cadenze quasi oniriche, come se tutti gli avvenimenti fossero brandelli strappati ai sogni (o meglio incubi) ricorrenti di Chiron. La fotografia non è dura e realista, ma spazia tra tinte pastello – che contraddicono con la loro morbidezza i contenuti della vicenda – e colori acidi che esasperano e trasfigurano alcuni passaggi drammatici.

Moonlight è anche discutibile in alcune soluzioni narrative che fanno troppo “poesia” – ralenti, momenti di sospensione insistiti -, però cerca caparbiamente un linguaggio capace di smarcarsi dalla gabbia del film di denuncia sociale. L’opportunità gliela offre il tema dell’identità sessuale che, sommandosi al dramma civile, arricchisce il racconto di note diverse, che virano verso l’intimismo sentimentale. Il risultato è un film molto personale, di realismo trasognato, nel quale oggettività fattuale e soggettività esistenziale si tengono in singolare e talvolta faticoso equilibrio. Un’originalità che ha reso Moonlight di Barry Jenkins uno dei favoriti agli Oscar, l’unica credibile alternativa a La La Land.