Rogue One, la recensione dello spin-off di Star Wars

Esce oggi il primo film della serie Star Wars Anthology, storie che si svolgono a margine della saga principale. Gareth Edwards firma un racconto che, pur rispettando il canone di Star Wars, ha il sapore di un film di guerra d'altri tempi.

Rogue One la recensione dello spin-off di Star Wars

INTERAZIONI: 20

Finalmente è arrivato il momento della recensione di Rogue One: A Star Wars Story, spin-off di Star Wars, che la Disney, proprietaria del marchio LucasFilm, distribuisce con un massiccio lancio contemporaneo nei cinema mondiali. Rogue One: A Star Wars Story è il primo film della nuova serie Star Wars Anthology, dedicata a storie che si svolgono a margine della saga principale. E l’attesa è spasmodica: gli analisti hanno previsto che nel primo weekend il film potrebbe incassare negli Stati Uniti 150 milioni di dollari, più altrettanti sul mercato estero. Elementi che testimoniano la straordinaria forza del brand Star Wars, ormai stabilmente entrato nell’immaginario contemporaneo.

Che cosa possono fare registi e sceneggiatori che decidano di misurarsi con la saga cinematografica più popolare al mondo? Muoversi nel solco della tradizione o tradirla? In Star Wars: il risveglio della Forza, J.J. Abrams puntò decisamente sulla continuità, confezionando un film pensato per i fan, intriso di nostalgia intelligente per l’immaginario vintage dello Star Wars del 1977 (quello che i profani chiamano Guerre Stellari e gli appassionati Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza).

Gareth Edwards (Monsters, Godzilla) e gli sceneggiatori Chris Weitz e Tony Gilroy fanno una scelta un po’ diversa e meno filologica, anche perché Rogue One è un film indipendente e autoconclusivo, che mantiene una labile connessione con il filone principale e non ha l’assillo di dover tener conto di tutta la complessa architettura narrativa della saga.

La vicenda prende spunto da un piccolo dettaglio del primo episodio, in cui si accennava al fatto che i piani della Morte nera fossero stai rubati dai ribelli. Storia che Rogue One si prende la briga di raccontare. Jyn Erso (Felicity Jones) da bambina viene abbandonata dal padre, lo scienziato Galen (Mads Mikkelsen), l’ideatore della Morte Nera, obbligato a tornare a lavorare per l’Impero per ultimare quell’arma letale. Ormai cresciuta, Jyn è una donna aggressiva, disillusa, perennemente segnata dal trauma familiare. Viene contattata dall’Alleanza Ribelle, nemica dell’Impero, perché è l’unica persona di cui potrebbe fidarsi Saw Guerrera (Forest Whitaker), vecchio amico del padre che la salvò bambina, il quale è in possesso di informazioni vitali per sconfiggere il nemico. Così, suo malgrado, Jyn è risucchiata dentro un conflitto cui pare non credere, accanto a un gruppo di valorosi abbastanza improvvisato, con un capitano dei Ribelli (Diego Lama), un pilota imperiale disertore (Riz Ahmed), una coppia di guerrieri orientali (Donnie Yen e Jiang Wen) e K2SO, l’immancabile (e saccente) droide di turno.

Sebbene compaiano fuggevolmente alcuni volti noti della saga principale, Darth Vader su tutti, Rogue One racconta una storia da vecchio film di guerra, con un impianto che guarda a modelli come Quella sporca dozzina (data la presenza di combattenti orientali nella squadra ci si può spingere indietro sino al capostipite, inarrivabile, I sette samurai). L’ambientazione è coerente con questa scelta, tra scenari che ricordano le isole del Pacifico teatro del fronte orientale della Seconda guerra mondiale.

L’impianto visuale complessivo di Rogue One rimanda ovviamente al canone di Star Wars, con quel gusto dolcemente infantile per il gigantismo della messinscena, tra pianeti maestosi ed enormi astronavi minacciose. Ma Gareth Edwards (e Tony Gilroy, che pare abbia rigirato molte parti) a questo immaginario consolidato abbina l’attenzione per le piccole storie di un gruppo di donne e uomini qualunque.

Rogue One si focalizza sulle battaglie e le dinamiche di gruppo di queste truppe di fanteria, di cui fotografa le canoniche schermaglie, le debolezze, l’abnegazione, il sacrificio per una causa più grande. Tutti i meccanismi retorici del film bellico d’una volta. Ed è questa, nell’ottica di una recensione, la cifra più personale ed emozionante dello spin-off Rogue One, che ha uno stile più mosso e sporco della media di Star Wars, con personaggi che si battono e soffrono e capitolano, anche. Perché è questo che succede in guerra. Soprattutto in una guerra nella quale, non essendoci immacolati cavalieri Jedi, non c’è nessuna Forza a soccorrerti. Ed è sintomatico il personaggio di Chirrut, samurai cieco che si appiglia alla Forza come a una preghiera, senza però realmente possederla. E allora può fare affidamento su una forza che è soltanto umana, incerta, fallibile.

Una recensione di Rogue One poi non può non rilevare una certa prevedibilità di racconto in questo spin-off di Star Wars, la pomposità dei dialoghi e l’ingombrante presenza delle musiche, che nella loro continua enfatizzazione emotiva tradiscono quasi la sfiducia degli autori nella tenuta autonoma dell’impianto narrativo. Ma nelle pagine di questa vicenda parallela alla saga vibra un tono più concreto, in un certo senso coerente con quel processo di umanizzazione che proprio J.J. Abrams ha inaugurato con l’episodio 7. E alla fine anche Rogue One ritrova il sapore della nostalgia. Ma non una nostalgia interna alla tradizione di Star Wars, ma indirizzata a un’idea di cinema d’altri tempi, eroico e a misura d’uomo.