American Pastoral, il capolavoro di Philip Roth trasformato in un film inerte

Pastorale americana racconta la tragedia d’una famiglia perfetta che ha una figlia terrorista. Un dramma personale in cui si specchia il collasso emotivo e identitario degli Stati Uniti. Purtroppo Ewan McGregor, alla prima regia, spegne la materia ribollente del romanzo, eliminando i passaggi più disturbanti. Così il risultato è modesto.

American Pastoral

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“A cena la conversazione cadde subito sul Watergate e su Gola profonda”: basterebbe questa frase tratta dal capolavoro Pastorale americana di Philip Roth per capire quanto distante dal romanzo sia la trasposizione cinematografica (lasciata col titolo originale American Pastoral), diretta e interpretata da Ewan McGregor. È vero, non si dovrebbero mai comparare film e libro. Un regista ha diritto all’infedeltà, quel che importa è solo il risultato finale. Ma è proprio qui che fallisce il film.

Pastorale americana di Philip Roth racconta le vicende dell’ebreo Seymour Levov (McGregor), detto lo “Svedese”, grande atleta e brillante imprenditore nel settore dei guanti, sposato con Dawn (Jennifer Connelly), cattolica ex reginetta di bellezza trasformatasi in angelo del focolare. La loro esistenza perfetta è sconvolta dalla figlia (Dakota Fanning), bambina balbuziente prima e adolescente terrorista poi.

Pastorale americana è la storia d’un dramma familiare in cui si specchia il collasso emotivo e identitario degli Stati Uniti, nel periodo che dalle promesse di prosperità del secondo dopoguerra conduce al crollo delle aspettative degli anni Sessanta, quando conflitti razziali e guerra in Vietnam tirano via la patina di conformismo e mostrano il prezzo d’una felicità così a lungo recitata. Perciò nel romanzo capita che a una cena borghese si parli insieme di Watergate e Gola profonda, diritti civili e sesso orale: solo la rivelazione della contorta intimità tra cose apparentemente agli antipodi consente di scalfire la superficie della realtà e comprenderne la vera, caotica natura. Quella manifestata dall’enigma di mister e miss America che partoriscono la propria nemesi.

Philip Roth sa che la contraddizione è la stoffa di cui sono fatte le tragedie. Ewan McGregor, invece, in American Pastoral pare dimenticarlo e il suo racconto, pur ripercorrendo gli avvenimenti esteriori del dramma, non ne coglie i significati essenziali. Si limita a mostrare lo scheletro della storia, asportandone la carne dolorante. Senza Gola profonda, potremmo dire: oppure, per uscire di metafora, senza il disturbante bacio sulle labbra che lo Svedese dà alla figlia ragazzina nel romanzo, ma non nel film.

Ma non si tratta solo di omissioni. I libri di Philip Roth sono oggettivamente difficili da trasporre, perché nelle sue opere i fatti non sono mai separati dalla voce dell’autore, che commenta, postilla, fa e disfa la materia del racconto. In tanti suoi romanzi, anche Pastorale americana, compare il personaggio dello scrittore Nathan Zuckerman, alter ego di Roth, proprio per confermare come sia impossibile scindere le storie dal tono attraverso cui vengono filtrate. Purtroppo, in American Pastoral la voce fuori campo di Zuckerman, soprattutto nella versione italiana, è immotivatamente carezzevole. Invece di mostrare le fratture d’una realtà tragica, la incarta in una confezione raddolcita, consegnandola a un passato reso pacificato. Il film, lo conferma il finale completamente diverso dal libro, tende a ricucire le ferite, a sciogliere il dolore in una parvenza di senso. Il romanzo invece è cadenzato su una serie martellante di domande alle quali non c’è risposta. Visti i risultati, non è difficile capire chi, tra Roth e McGregor, abbia ragione.