Grey’s Anatomy 13 è la stagione di Alex Karev, viaggi nel tempo nell’episodio 13×04 (recensione)

Dal meritato centralismo di Alex Karev alla svolta per Owen e Amelia: recensione di Grey's Anatomy 13x04


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Grey’s Anatomy 13×04 ha esaudito definitivamente gli auspici per questa nuova stagione. Ora lo si può dire con ragionevole certezza: Alex Karev è sia l’eroe che l’antieroe di questa storia. Sempre in bilico tra la sua parte migliore e quella peggiore, quando mostra la prima è semplicemente irresistibile. Confinato nel limbo dell’ambulatorio, che peraltro porta un nome foriero di dolorosi ricordi, è in continua lotta con se stesso: il senso del dovere e quello della ribellione fanno a cazzotti, ma il risultato è sempre più positivo.

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Alex accetta malvolentieri di non poter essere un chirurgo, impossibilitato all’uso del bisturi perfino per rimuovere un ascesso. Eppure trova il modo di essere un vero medico, anche quando è costretto a cambiare flebo e curare i postumi di una sbronza. Lo fa diagnosticando una rara sindrome ad una paziente che sulle prime sembrerebbe semplicemente dedita all’alcol. Il modo in cui rinuncia al riconoscimento dei suoi meriti, lasciando che sia Webber a comunicare alla restìa paziente la sua diagnosi, è la dimostrazione di ciò che Alex è diventato: riuscendo a sorridere per aver salvato una vita, nonostante rischi di perdere la sua libertà e con essa la possibilità di fare medicina, conferma la caratura di questo personaggio, elevata oltre ogni aspettativa iniziale sebbene i suoi demoni interiori riaffiorino di tanto in tanto. Questo è il momento di Alex, che dopo 10 anni trova la sua centralità meritata. E gli autori sono in debito con lui: gli devono almeno una stagione da grande protagonista.

Qualcosa di positivo si muove anche sul fronte degli Omelia. Per la prima volta in tre stagioni, la loro storia comincia a mostrare uno spessore che non si era mai visto prima. Se il pubblico non è riuscito da subito ad appassionarsi a questa storia come alle precedenti c’è un motivo e non è solo per il confronto con l’epica storia d’amore di Owen e Cristina. Finora erano mancate scene che mettessero davvero i due personaggi a nudo l’uno di fronte all’altro, che permettessero ad uno dei due di dire una di quelle frasi definitive (del tipo “Le uniche volte in cui non mi sento un fantasma è quando mi guardi tu, perché tu guardi e vedi me“).

Ecco, quel momento è arrivato con la confessione di Amelia di aver perso l’amore della sua vita per un’overdose e quella di Owen che ricorda l’aggressione a Cristina dovuta alla sua sindrome post traumatica da stress. Le lacrime di Owen possono avere più di un’interpretazione ma probabilmente la spiegazione sta proprio l’aver superato una barriera ed essere entrato in modo profondo nella vita dell’altra persona come finora non era ancora accaduto. Anche se della profondità dei dialoghi di un tempo tra Owen e Cristina ormai non v’è traccia.

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E finalmente anche il personaggio di Nathan Riggs comincia a mostrare il suo carattere al di là dell’aura di bello e tenebroso che lo accompagna. La sua reazione alle insinuazioni di Meredith, che teme di aver avuto il suo appoggio in una diagnosi (rivelatasi fatale per le capacità motorie di una paziente) per ragioni personali e non mediche, mostra finalmente un aspetto diverso di Riggs: la sua rabbia e la sua indignazione stavolta riguardano solo se stesso, la sua etica professionale, vanno di là del suo rapporto con Meredith o con Owen. Finora Riggs si è fatto conoscere dal pubblico per i suoi rapporti per lo più contrastati con gli altri medici. Stavolta invece afferma la sua identità a prescindere dal ruolo di antagonista di Owen o spasimante di Meredith. La volontà di quest’ultima di “restare solo colleghi” è una scelta strategica indovinata da parte degli autori: questa storia ha bisogno di crescere senza bruciarsi, di esplicare tutto il suo potenziale (e ne ha tantissimo) attraverso quello struggimento che solo in Shondaland sa essere drammatico, attraente e poetico insieme.

Anche loro confinati in un limbo, Jo e De Luca si ritrovano vicini nella loro solitudine: se Grey’s Anatomy ci ha insegnato qualcosa, la condivisione di un panino sulla balaustra è l’inizio di qualcosa, anche perché tra Jo e Alex ormai l’incapacità di comunicare è arrivata all’apice quando la specializzanda si è sentita sfruttata dal suo ex per il “lavoro sporco” in ambulatorio. Incomprensioni su incomprensioni che li allontaneranno inevitabilmente, magari portandoli anche ad avere relazioni con altri, finché (forse) uno dei due si renderà conto che non può fare a meno dell’altro.

In questa stagione fa un effetto strano sentir parlare April e Jackson quasi come due estranei, convivere tra imbarazzi e scarsa confidenza, quando sono stati marito e moglie e ora sono genitori di Harriet: è come se in questa storia bisognasse rifondare tutto da capo e probabilmente è questo che gli sceneggiatori faranno episodio dopo episodio. Dopo essere stati letteralmente distrutti, per i Japril è tempo di ricostruire.

Nota a margine per la scena finale. Il pubblico storico di Grey’s Anatomy ha ormai accettato che gli anni d’oro della serie sono irrimediabilmente andati: con la decima stagione si è chiuso un ciclo ed è iniziato un altro. La capacità, però, di richiamare alla memoria quel che di grande c’è stato resta un punto forte di questa serie (e in generale di tutte le produzioni Shondaland), che in un attimo con una semplice inquadratura ricca di chiaroscuri riesce a riportare alla mente la potenza delle storie di un tempo. L’inquadratura finale all’ingresso dell’ambulatorio dedicato alla memoria di Denny Duquette basta da sola a regalare un istantaneo viaggio nel tempo a chi guarda.

https://youtu.be/2HsCVG7SFGs