Festival di Venezia 2016, primi bilanci in chiaroscuro. E oggi arrivano i cannibali

Superato il giro di boa, affiora la sensazone di un concorso sottotono, a corto di capolavori. Oggi tocca al cannibal movie di Ana Lily Amirpour e "Une vie" di Stéphane Brizé, da Maupassant. Fuori concorso i più attesi sono Francesco Munzi e Kim Rossi Stuart.

Venezia 2016, arrivano i cannibali di “The Bad Batch”

INTERAZIONI: 9

Il direttore Alberto Barbera aveva scommesso molto sui tre titoli italiani selezionati per il concorso principale di Venezia 2016, tre outsider che non appartengono al gotha degli “autori” più accreditati del nostro cinema. Ma ora che due di quei tre film sono stati proiettati, si comincia a pensare che questa scommessa potrebbe essere andata persa. Domenica è stata la volta del documentario Spira Mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Che è stato sì applaudito dal pubblico, ma tanti hanno abbandonato la sala prima della fine. “È un’opera che ha bisogno di un tempo di visione anche superiore ai suoi stessi 121 minuti”, ha scritto Pedro Armocida su il Giornale. “Non crediamo nel cinema per il pubblico – ha dichiarato in conferenza stampa Massimo D’Anolfi –, ci rivolgiamo più alle persone che hanno uno sguardo critico sulla realtà”. Un cinema dichiaratamente non per tutti, rigoroso e sperimentale, che rischia di restare chiuso in un’ambizione d’autore programmaticamente elitaria. “Anziché piegarsi con umiltà all’ascolto delle cose – ha scritto Emiliano Morreale su la Repubblica – sembra che gli autori si vadano innamorando del proprio sguardo, dei proprio ritmi, rischiando a ogni passo di indebolire il risultato”.

Ieri invece è toccato a Piuma, la commedia generazionale di Roan Johnson. Barbera ha detto che è ben scritta e ben interpretata, ma nelle proiezioni per la stampa ha raccolto qualche fischio, per i troppi giovanilismi da commedi(ol)a all’italiana. E Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera si chiede come abbia fatto a finire in concorso un film piattamente televisivo che esibisce anche facce televisive (il Brando Pacitto di Braccialetti rossi, visto anche ne L’estate addosso di Gabriele Muccino). Questa polemica se ne trascina un’altra, sollevata da più d’un critico: non sarebbe stato meglio ammettere in concorso Indivisibili di Edoardo De Angelis, che è piaciuto molto e che invece è passato nelle Giornate degli Autori?

In generale, a leggere le valutazioni dei critici questo di Venezia 2016 è fino a oggi un concorso in chiaroscuro. Non hanno convinto i film sudamericani, il misticismo del cileno Murray, lo stroncatissimo messicano Escalante di La Región Salvaje. Sicuramente meglio gli argentini Mariano Cohn e Gaston Duprat, che hanno strappato risate intelligenti e distribuito notazioni acute con El ciudadano ilustre. Altalenanti per ora i titoli europei: è piacuto il raffinato ed elusivo Frantz in costume di Ozon; mentre l’ultimo Wenders ha confermato le tante perplessità sulla produzione più recente del maestro tedesco – “un film immobile”, lapidaria Fulvia Caprara su La Stampa. Solo i titoli americani per ora tengono alta la bandiera di Venezia 2016: gli unici ad aver raccolto consensi sono il musical La La Land di Damien Chazelle, la fantascienza di Arrival di Denis Villeneuve e il thriller Nocturnal Animals di Tom Ford. E qualcuno potrebbe velenosamente commentare che in questo sbilanciato concorso il festival di Venezia ha avuto un occhio eccessivamente riguardoso per il cinema d’oltreoceano, l’unico veramente in grado di smuovere le montagne del mercato mondiale. E dalla stampa estera arriva il giudizio malevolo di Libération, con un articolo dell’inviato Julien Gester intitolato Diluvio di calamità, il quale sostiene che la rassegna “senza una linea direttrice precisa ha debuttato con un fiume di film crudeli e morbosi”.

Si potrebbe però replicare ricordando che devono ancora sbarcare i pezzi da novanta, i Grandi Autori che potrebbero mettere tutti d’accordo, Terrence Malick, Lav Diaz, Pablo Larrain. Staremo a vedere. Oggi intanto i due titoli in concorso sono il francese Une vie di Stéphane Brizé e l’americano The Bad Batch di Ana Lily Amirpour. Raccontiamoli, gettando anche uno sguardo all’Italia fuori dai confini del concorso, quella del documentario di Francesco Munzi Assalto al cielo e di Tommaso di Kim Rossi Stuart.

Une vie, di Stéphane Brizé

Grazie al successo di La legge del mercato, un milione di spettatori in Francia e meritato premio per il miglior attore al festival di Cannes per Vincent Lindon, il regista Stéphane Brizé passa dalla rigorosa, sconsolata radiografia del mondo del lavoro di oggi a Une vie, film in costume tratto dal romanzo omonimo di Maupassant ambientato nel primo Ottocento. E passa, Brizé, da un budget contenuto di un milione e mezzo di euro a una più consistente produzione da 8 milioni in cui sono coinvolti TS Productions, France 3 Cinéma, Canal+ et Ciné+.

Une vie, che Stéphane Brizé ha scritto insieme alla fidata Florence Vignon (Mademoiselle Chambon, Quelques heures de printemps) racconta l’esistenza di Jeanne du Perthuis des Vauds tra i 18 e 45 anni, una donna ipersensibile, ingenua e inesperta del mondo che, appena uscita dal convento in cui è stata educata, sposa Julien Delamare, un visconte locale. Ai suoi occhi quest’uomo costituisce il coronamento dei suoi ideali. Ma l’uomo si rivela avaro e fedifrago, e gli ingenui sogni della ragazza rapidamente s’incrinano. Jeanne pensa con nostalgia alla dolcezza degli anni dell’infanzia, a un tempo così diverso da un presente senza prospettive.

Une vie è la storia di un lutto impossibile. Come ha dichiarato Stéphane Brizé, “Jeanne entra nella cosiddetta vita “adulta” senza aver mai affrontato la perdita di quel paradiso che è l’infanzia, quel momento dell’esistenza umana in cui ogni cosa sembra perfetta. Poi, con il passare degli anni, questo ideale diventa più sfumato trasformandosi talvolta in disillusione. Jeanne non vuole, non può o non sa come far evolvere il suo concetto di vita. Questo la rende una persona speciale. È una creatura meravigliosa, rara, perché la sua mente è priva di secondi fini. Ciò detto, proprio l’aspetto che la rende tanto affascinante è al contempo la sua condanna”.

The Bad Batch, di Ana Lily Amirpour

Con The Bad Batch arriva il più eterodosso dei titoli americani presenti in concorso a Venezia 2016. La giovane regista, Ana Lily Amirpour, s’è messa in luce un paio d’anni fa con un esordio decisamente indie, A Girl Walks Home Alone at Night, bianco e nero cinefilo di prammatica e canonico frullato di generi, tra vampire movie e western. Il film è passato al Sundance ed è diventato un oggetto di culto. Anche perché, poiché la regista è di origini iraniane, il film è una singolare mescolanza di culture, in cui tanti riferimenti e citazioni sono palesemente occidentali, ma poi il film è girato interamente in lingua farsi in quella che pare una inesistente città iraniana.

Anche per la sua seconda regia, The Bad Batch, prodotta dalla Annapurna Pictures, Ana Lily Amirpour mescola i generi e propone una love story cannibale ambientata in un futuro distopico tra una comunità di mangiatori di carne umana nel nulla del deserto texano. La protagonista è una ragazza rifiutata dal mondo civile che per questo s’inoltra nel deserto, dove viene rapita da una comunità di cannibali. Riesce a scappare, ma poi si reimbatte in uno di loro, e accade qualcosa d’inatteso.

Secondo la regista The Bad Batch è “Interceptor che incontra Bella in rosa con una colonna sonora drogata”. Si preannuncia come un film decisamente per stomaci forti. Ma ha l’ambizione di costruire una parabola scopertamente politica, nella quale il futuro distopico e gli esseri che si cibano dei propri simili si fanno metafora di altri tempi e altri luoghi a noi assai più vicini. Di tutto rispetto il cast, che attorno ai protagonisti Suki Waterhouse e Jason Momoa fa ruotare nomi del calibro di Jim Carrey, Keanu Reeves e Giovanni Ribisi, che dànno immediatamente un sapore cultistico all’operazione. E il film, dopo Venezia, va anche al festival di Toronto.

Gli altri protagonisti: Francesco Munzi e Kim Rossi Stuart

Anni Settanta, utopia e violenza. Il festival di Venezia porta fortuna a Francesco Munzi. Due anni fa era venuto qui in concorso con il bellissimo Anime nere, destinato a essere il film italiano dell’anno nonché vincitore del David di Donatello. Quest’anno il regista romano torna a Venezia 2016, fuori concorso, con il documentario Assalto al cielo, che partendo da un certosino lavoro su materiali d’archivio (tra Luce, Rai, Movimento operaio, Cineteca di Bologna), ricostruisce le lotte politiche italiane nel decennio cruciale tra 1967 e 1977, gli anni di piombo. È un film che parte da una memoria infantile di Francesco Munzi, che vide un politico democristiano ferito dalle Brigate rosse. Il regista ha dichiarato a la Repubblica di aver affrontato quest’opera con uno spirito da ricercatore, alla maniera di uno storico alle prese con fonti documentarie. Munzi vuole restituire l’aria dell’epoca e per questo sceglie un approccio polifonico di voci dal basso, non focalizzandosi su volti noti e istituzioni, ma raccontando una stagione di utopie e violenza a partire dai militanti comuni. Sarà interessante vedere l’approccio di Munzi alla materia, che anche per questioni anagrafiche – il regista è nato nel 1969 – non potrà essere ostaggio di nostalgie o sensi d’appartenenza, e ci auguriamo che il film sia un contributo d’autore alla comprensione di una delle pagine più contorte della storia dell’Italia repubblicana.

L’uomo che ama le donne. È un festival di Venezia impegnativo per Kim Rossi Stuart, che arriva sul Lido in una doppia veste. Da un lato è il presidente della giuria del Premio Venezia Opera prima Luigi De Laurentiis, che assegna il Leone del futuro al migliore film d’esordio tra tutti quelli presentati alla Mostra. Dall’altro è presente fuori concorso con Tommaso, suo secondo lungometraggio da regista, a dieci anni dalla sorpresa di Anche libero va bene. Un film, Tommaso, di cui è inevitabilmente il protagonista, visto che racconta la storia di un attore/regista e i suoi problemi con le donne (e le donne con lui). A chi gli chiede se Tommaso sia una proiezione di Kim Rossi Stuart lui risponde sibillino che “l’autobiografismo è un’illusione ottica”. Ma poi definisce il film “il mio testamento”, frutto di un lavoro di sceneggiatura che l’ha accompagnato per anni, in cui ha cercato “il valore etico del mettersi a nudo del protagonista davanti a se stesso”. E se sarà riuscito in questa dichiarata opera di coraggio, allora Kim Rossi Stuart avrà firmato una commedia sanamente urticante.